Privatizzazioni, dai porti agli acquedotti: il governo sfoglia la margherita

L'idea è di non procedere alla cessione di quote di aziende ma semmai di privatizzare la gestione di alcuni servizi. Ma ci sono dei problemi: ecco quali

Economia

Privatizzazioni: porti, acquedotti e... Le scelte del governo


 

Si continua a girare a vuoto intorno al tema delle privatizzazioni, senza che nessuno, dopo una settimana, abbia iniziato a spiegare da dove si vuole partire. Quello che Affaritaliani.it può riferire dopo aver avuto interlocuzioni ai massimi livelli è che al momento si punta a cedere la gestione di alcuni servizi più che a vendere quote di società. La prima idea, dunque, riguarda i porti. Non tanto la cessione del demanio portuale, ci mancherebbe: in un momento storico così complesso dal punto di vista geopolitico la sovranità sugli hub marittimi deve restare interamente nelle mani dello Stato.

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Quello che però si inizia a immaginare è un partenariato pubblico privato in cui siano proprio aziende terze che promuovano e incentivino i porti turistici, con servizi accessori e compartecipando agli utili. C’è però un profilo di rischio su una cosa del genere: l’intento dei privati è, ovviamente, quello di remunerare il capitale. Se dovessero decidere di entrare nel business dei porti si scontrerebbero con una sentenza del Consiglio di Stato del dicembre 2012 in cui si legge che “i porti turistici, in quanto realizzati in virtù di concessione su area demaniale, per il principio dell’accessione costituiscono beni demaniali, e dunque beni pubblici, soggetti al regime delle opere pubbliche, e solamente gestiti da soggetti privati per il periodo di durata della concessione, ritornando, allo scadere della concessione, nella disponibilità dell’ente pubblico, e fatti salvi i casi in cui l’atto concessorio preveda a favore del concessionario la proprietà superficiaria a termine delle opere portuali, che è proprietà privata per la sola durata della concessione, consolidandosi, allo scadere della concessione, quale proprietà pubblica demaniale”.

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Quindi, si rischia di ritrovarsi una nuova situazione di concessioni come nel caso degli stabilimenti balneari o dei tassisti. Ora: se le cose dovessero essere fatte in accordo con l’Europa, allora si potrebbe aprire un nuovo capitolo, altrimenti c’è il serio rischio che il meccanismo concessorio si tramuti in un boomerang.

Altro capitolo riguarda i servizi pubblici locali. In questo caso si pensa di affidare la gestione di alcuni servizi ai privati. In realtà non è una grande novità: le multiutility come A2A o Acea sono già partecipate dal pubblico (nel caso dell’azienda lombarda quota paritetica del 25% tra Milano e Brescia e il resto sul mercato, per quanto concerne quella romana il 51% appartiene al comune). In particolare, il servizio idrico ha degli acquedotti, specialmente nel Mezzogiorno, che perdono fino al 50% della portata d’acqua. Ma anche qui la strada non è così semplice.

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Nel 2009, infatti, l’allora governo di centro-destra realizzò una legge che permetteva la gestione ai privati, ma che venne abrogata da un referendum che ricadde sotto il nome (improprio) di “acqua pubblica”. Il che non era esattamente il tema – le risorse idriche sono un bene inalienabile come lo è il mare o la montagna – ma che servì per bloccare qualsiasi tentativo di rimodulare l’offerta. Tra l’altro, le tariffe idriche in Italia erano e sono tra le più basse in Europa: l’ingresso dei privati porterebbe immediatamente a un incremento delle tariffe poiché nel settore vige la regola del “full cost recovery”: ovvero la completa remunerazione degli investimenti profusi per garantire il servizio. Se qualcuno spendesse dei soldi per ammodernare gli acquedotti, è normale che poi dovrebbe e vorrebbe rientrare dell’investimento profuso. Siamo proprio sicuri che gli italiani apprezzerebbero un incremento di queste tariffe oltre a quelle di luce, gas, benzina, carrello della spesa e via dicendo?

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