Economia

Mercati, privatizzazioni, debito: non è ancora il 1992, ma attenzione ai segni

di Marco Scotti

Oltre 30 anni fa Amato varò un governo "da lacrime e sangue" che non bastò per evitare l'esclusione dallo Sme. Oggi la situazione non è ancora così, ma...

Non è (ancora) come nel 1992: ma i mercati iniziano a premere

Nel capire che cosa sta succedendo nello scacchiere internazionale e se c’è davvero l’intenzione di commissariare l’Italia con la scusa dello spread e del rialzo dei rendimenti dei Btp, bisogna guardare a una serie di segnali che ricorrono nella nostra storia. Una narrazione fatta di intrighi e di corsi e ricorsi. Dunque: in questi giorni è tornato a circolare – indiscrezione bomba di Affaritaliani.it – il nome di Giuliano Amato come possibile dominus di un ipotetico governo di emergenza qualora i mercati iniziassero a pestare per davvero sull’Italia, facendo rialzare lo spread e rendendo ancora più oneroso di quanto già non sia finanziare il debito pubblico del nostro Paese.

Partiamo dall’interno del governo. Le cannonate che arrivano da parte della Lega – riferiscono ad Affaritaliani.it fonti ai massimi livelli – hanno al tempo stesso una duplice necessità: distogliere l’attenzione da una manovra che sarà comunque problematica (si pensi soltanto ai 14 miliardi di deficit complessivo); e, dall'altra parte, rispondere all’esigenza del Carroccio di occupare una posizione più “di destra” rispetto a quella di Fratelli d’Italia che, in quanto primo partito, non può più permettersi di cannoneggiare contro l’establishment. Quindi, si tratta di semplici schermaglie, normali dialettiche all’interno di una famiglia che tutto sommato continua a governare serenamente dopo un anno. 

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Diverso il discorso se si guarda verso l’esterno. Sono passate quasi sotto silenzio le dichiarazioni del Ministro Giorgetti che, nella conferenza stampa di giovedì, annunciava che nei prossimi anni lo Stato avrebbe privatizzato fino all’1% del Pil. Tradotto: siamo pronti a immettere sul mercato una nuova tranche di azioni di aziende partecipate. Il novero è amplissimo e va dai giganti Eni, Enel, Leonardo, Poste fino ad Autostrade per l’Italia, passando per Terna, Snam e via dicendo. Inutile lanciarsi adesso in un “toto-nomi” che non avrebbe alcun senso. Anche perché Giorgetti ha dichiarato che sarà il Mef a stabilire tempi e modalità.

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Però significa che siamo di nuovo pronti a vendere una parte, seppur piccola (l’1% del Pil vuol dire circa 20 miliardi di euro, poca roba se si pensa alle valutazioni di mercato delle grandi aziende partecipate) dell’argenteria di famiglia. Fa ancora più specie che ad annunciare questo provvedimento sia stato un governo che aveva sempre difeso l’italianità delle nostre aziende e che si appresta a rientrare, seppur in minoranza, all’interno della rete di Tim. L’afflato sovranista, dunque, sembra abbandonato in favore della ragion di Stato.

Su questo bisogna prodursi in un supplemento d’indagine. Quando si vendono vecchi pezzi lasciati in soffitta nessuno sospetta che una famiglia sia in difficoltà. Se però ci si impegna l’argenteria o l’oro della prima comunione, allora la percezione è assai diversa. Anche su questo bisogna stare attenti per evitare che ci sia una “corsa” al Tesoro (rigorosamente maiuscolo) del nostro Paese. 

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Una sensazione di questo tipo riporta le lancette indietro di un trentennio, al 2 giugno 1992 quando – sullo yacht Britannia – il direttore generale del Tesoro, un certo Mario Draghi, organizzò un incontro riservatissimo per annunciare che l’Italia era pronta a dismettere l’economia di Stato per abbracciare una visione di libero mercato. Fu una scelta sensata? In alcuni casi sì, ovvero laddove si mantenne nelle aziende un controllo diretto del governo. Eni, Enel, Leonardo, Poste e via dicendo sono dei gioiellini, che competono sullo scacchiere globale e – come nel caso dell’ex monopolista guidato da Flavio Cattaneo – dettano l’agenda della trasformazione energetica. Nel caso di Telecom invece una privatizzazione in cui lo Stato abdicò rapidamente si tramutò in un disastro di cui ancora oggi pagano le conseguenze gli italiani e i dipendenti di un’eccellenza tramutata in un gigante zavorrato da un debito monstre. E in cui oggi lo Stato deve tornare investendo 2,5 miliardi. 

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Infine, un’ulteriore analogia, stavolta sui nomi. Nel 1992, oltre a Mario Draghi che ha rappresentato probabilmente l’uomo più importante dell’ultimo trentennio – grazie al quale non siamo affondati nel 2011 durante la crisi del debito sovrano – c’era un altro nome che iniziava a girare vorticosamente nei palazzi del potere dopo che, a fine aprile, cadde il governo Andreotti: era quello del Dottor Sottile, Giuliano Amato, che prese le redini dell’esecutivo il 28 giugno del 1992. Era l’anno orribile della morte per mano della mafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. 

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Tra gli atti che si ricordano di questo esecutivo che durò 10 mesi esatti si ricorda, con dolore, il prelievo forzoso dai conti correnti del 6 per mille. Pochi giorni dopo l’insediamento, infatti, il Dottor Sottile con un blitz notturno prelevò 8.000 miliardi di lire dai depositi degli italiani, senza eccezioni. Vennero presi anche altre provvedimenti, dall’aumento dell’età pensionabile alla patrimoniale sulle imprese, dalla minimum tax all’introduzione dei ticket sanitari, dalla tassa sul medico di famiglia all’imposta straordinaria sugli immobili pari al 3 per mille della rendita catastale rivalutata, cioè l'Ici poi reintrodotta dal governo Monti con il nome di Imu. 

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Ultima similitudine? Anche allora la lira era finita sotto attacco speculativo. In quel caso fu George Soros che ordì una trama internazionale che portò alla sospensione della nostra valuta dallo Sme, il Sistema Monetario Europeo che fu anticipatore dell’euro. Furono altre lacrime e sangue prima del terremoto di Tangentopoli, dell’inizio della Seconda Repubblica e dell’avvento del berlusconismo. Trent’anni dopo alcuni pianeti si stanno allineando nuovamente. Speriamo non tutti ma, nel dubbio, allacciamo le cinture.