Premio Strega, trame e recensioni dei libri: intervista ai finalisti

Le trame, le recensioni e le interviste agli autori rientrati nella dozzina del Premio Strega 2024

di Chiara Giacobelli
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Libri & Editori

Premio Strega, trame e recensioni dei libri

Sei sono i finalisti che accederanno alla serata conclusiva del Premio Strega 2024, prevista per il 4 luglio. Nel frattempo Affaritaliani.it ha raggiunto tutti ali autori nella rosa della dozzina, realizzando interviste esclusive e incontrandoli nella data di Macerata Racconta.

Per gli autori rientrati nella dozzina del Premio Strega 2024 è tempo di viaggi, presentazioni, firma copie: sia per quelli che hanno passato il turno conquistando l’ambita cinquina – quest’anno sestina – sia per coloro che non sono in finale, ma continuano a girare l’Italia incontrando centinaia di lettori. Una delle tappe ufficiali del Premio Strega 2024 ha visto come protagoniste le Marche, nello specifico il noto festival letterario Macerata Racconta, quest’anno giunto alla sua quattordicesima edizione. Sul palco del Cinema Italia sono saliti i dodici semifinalisti della dozzina presentati da Loredana Lipperini e accompagnati dal Direttore della Fondazione Bellonci Stefano Petrocchi: ciascuno aveva a disposizione due domande e una decina di minuti per raccontare il suo romanzo alla folta platea, mentre in conclusione a tutti è stato chiesto quali siano gli errori da non fare quando si scrive un libro, visto che proprio Gli errori erano il tema di questa edizione. Sono saltate fuori risposte curiose e interessanti, come “non cercare di essere originali a tutti i costi”, “non fermarsi a pensare a chi ci leggerà per non incappare in un blocco assicurato”, “aspettare l’ispirazione prima di mettersi a scrivere”, “l’autocompiacimento”, “tendere a giudicare i propri personaggi”.


 

Qualche domanda è stata rivolta da Loredana Lipperini anche a Petrocchi, in veste di Direttore Della Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, che ormai dal 1986 promuove la cultura e la diffusione della lettura. Anche lui è a tutti gli effetti uno scrittore, attualmente alle prese con un libro relativo alla figura di Maria Bellonci, ma il suo intervento si è incentrato sulla selezione delle opere. “Una domanda che ci viene posta spesso è come facciamo in un solo mese a leggere ben 82 libri - ha spiegato Petrocchi alla sala di Macerata Racconta, attenta e interessata - Per fortuna i romanzi non escono tutti insieme, alcuni sono stati pubblicati ben prima; ad esempio quello di Antonella Lattanzi è apparso in commercio addirittura un anno fa, mentre la Di Pietrantonio era disponibile in autunno. Dunque la risposta è che buona parte di questi libri noi già li abbiamo letti prima della selezione, in quanto fa parte del nostro lavoro. Oltre a ciò, bisogna ammettere che non sempre leggiamo per intero tutti gli 82 libri: il mestiere che facciamo implica saper riconoscere il valore di un’opera e la sua possibilità di essere ammessa in dozzina talvolta entro le prime dieci pagine. Se vale la pena andiamo avanti, altrimenti, se ci accorgiamo che non soddisfano il livello di qualità richiesto, non procediamo neppure nella lettura”.

La stessa Loredana Lipperini nel corso del pomeriggio maceratese ha affermato che “è ingeneroso pensare di poter raccontare il contenuto di un libro in cinque minuti”; per questo motivo noi di Affaritaliani.it, come ogni anno, abbiamo pensato di dedicare loro più spazio, raccontandovi le trame e le peculiarità dei titoli in dozzina, oltre ad esserci procurati le interviste esclusive di tutti gli autori in gara.


 

La dozzina del Premio Strega 2024

Sonia Aggio, Nella stanza dell’imperatore (Fazi), proposto da Simona Cives

Adrián N. Bravi, Adelaida (Nutrimenti), proposto da Romana Petri

Paolo Di Paolo, Romanzo senza umani (Feltrinelli), proposto da Gianni Amelio

Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile (Einaudi), proposto da Vittorio Lingiardi

Tommaso Giartosio, Autobiogrammatica (Minimum Fax), proposto da Emanuele Trevi

Antonella Lattanzi, Cose che non si raccontano (Einaudi), proposto da Valeria Parrella

Valentina Mira, Dalla stessa parte mi troverai (SEM), proposto da Franco Di Mare

Melissa Panarello, Storia dei miei soldi (Bompiani), proposto da Nadia Terranova

Daniele Rielli, Il fuoco invisibile. Storia umana di un disastro naturale (Rizzoli), proposto da Antonio Pascale

Raffaella Romagnolo, Aggiustare l’universo (Mondadori), proposto da Lia Levi

Chiara Valerio, Chi dice e chi tace (Sellerio), proposto da Matteo Motolese

Dario Voltolini, Invernale (La Nave di Teseo), proposto da Sandro Veronesi


 

NdR: Nell'immagine il libro "Storia dei miei soldi" di Melissa Panarello non è presente in quanto non è stato possibile reperire la versione cartacea dalla casa editrice Bompiani. Lo spazio per l'autrice e per la sua intervista è stato comunque garantito nell'apposita pagina.

Nella stanza dell’imperatore di Sonia Aggio (Fazi Editore)

Se è vero che i romanzi in qualche modo legati alla storia in questa dozzina sono diversi, quello di Sonia Aggio, giovanissima scrittrice veneta, è un vero e proprio romanzo storico, che di certo appassionerà gli amanti del genere. Come il suo esordio Magnificat, sempre edito da Fazi, Nella stanza dell’imperatore guarda poco all’aspetto autobiografico, per concentrarsi invece sulla figura di Giovanni Zimisce: non è certamente tra i personaggi più noti del passato, eppure Sonia ne fa emergere, attraverso una scrittura scorrevole e non autoreferenziale, le vicende e le avventure che meritano di porgere su di lui la nostra attenzione, ricordandoci come a volte siano proprio gli uomini (o le donne) secondari, caduti nell’oblio, quelli più interessanti da scoprire. A loro è spesso spettato il compito di decidere le sorti della Storia, sebbene nessuno lo abbia mai saputo, oppure non se ne ricordi.

Zimisce è un valoroso condottiero che combatte con coraggio per l’Impero bizantino: ha perso sua moglie e i parenti del padre, è considerato un traditore, non ha più una casa. La guerra sembra essere tutto ciò che gli resta per dare un senso alla vita, ma il destino ha in serbo per lui un inaspettato futuro glorioso. Quell’uomo venuto dal nulla e partito dall’esercito diventerà infatti un importante imperatore bizantino, condurrà alla vittoria il suo popolo più volte, specialmente nel 974 e 975 grazie a due imponenti spedizioni in Oriente contro i Fatimidi; concluderà infine la sua intensa esistenza nel 976, secondo alcuni morto di tifo, per altri avvelenato dai numerosi nemici. In ogni caso, fu una figura fondamentale nel lontano passato di Bisanzio, di cui oggi raramente parliamo; è proprio per questo che il romanzo della Aggio è quanto mai prezioso.


 

Intervista a Sonia Aggio

Come mai ha deciso di scrivere la storia di Giovanni Zimisce? Come lo ha scoperto e quanto c’è di vero, o quanto di fiction, in questo romanzo?

“L’idea di dedicare un romanzo a Giovanni Zimisce è arrivata durante l’università: nel corso di una lezione ci è stato letto un brano che parlava di lui e io ho subito percepito la bellezza e la complessità di questa figura, un illustre sconosciuto della storia bizantina. Il rapporto tra fantasia e realtà all’interno del romanzo è abbastanza equilibrato: sono veri gli eventi storici narrati, le battaglie combattute e le scelte politiche dell’imperatore. È invece frutto di fantasia quasi tutto quello che riguarda l’uomo: le sue passioni, le sue fobie, le sue relazioni interpersonali.

Non è nuova alle giurie di premi importanti, come il Calvino, il Campiello e ora lo Strega. Qual è l’aspetto più gratificante che ha ricevuto da queste esperienze?

“I premi a cui ho partecipato mi hanno dato tanto. Ho conosciuto persone che poi sono diventate amici e amiche, ma ho anche conosciuto me stessa, ho capito in quale direzione volevo andare, cosa volevo e voglio ancora scrivere, oltre ad avere la conferma che c’è un posto anche per me e per le mie storie in questo vasto mondo. Ciò nonostante io vivo sempre con molta ansia le fasi di selezione, gli annunci, i comunicati; di solito mi isolo, non ricordo a nessuno che si sta avvicinando il giorno X, mi rifiuto di sbirciare sui social, e così sono sempre l’ultima a scoprire com’è andata. Ma anche se l’ansia per la selezione mi ha divorata viva, sto provando una gioia grandissima, perché sono arrivata alla dozzina con un libro che ho davvero amato scrivere, e sono felice del viaggio che mi aspetta”.

Negli ultimi anni il romanzo storico ha visto un vero e proprio boom, tanto da diventare quasi una moda. Secondo lei come mai?

“Il romanzo storico rappresenta una sfida: allo scrittore impone di ricostruire in maniera coerente un’epoca passata, sconosciuta, mai vissuta in prima persona, e di farlo in modo tale da avvincere il lettore fino all’ultima pagina; gli si impone di fidarsi, di accettare – a volte senza poter comprendere del tutto – ciò che gli viene raccontato. Credo che la fortuna del romanzo storico dipenda proprio dal crescente desiderio di scrittori e lettori di misurarsi con qualcosa che è lontano da noi, qualcosa che è verosimile e fantastico al tempo stesso”.


 

 

Adelaida di Adrián N. Bravi (Nutrimenti)

Una donna, una combattente, un’intellettuale; ma anche un’artista, un’amante e una madre. La figura femminile che Adrián N. Bravi, scrittore argentino originario di Buenos Aires trapiantato nelle Marche, ha voluto riportare alla luce è di certo una delle più affascinanti del Novecento, meritevole – proprio come lo Zimisci della Aggio – di essere conosciuta e riscoperta. Originaria di Recanati, Adelaida divenne assai meno celebre del suo conterraneo Giacomo Leopardi, sebbene condivise con lui la passione per la letteratura e per la poesia; visse però in un’epoca diversa, in piena Seconda Guerra Mondiale, fatto che la costrinse a delle scelte cruciali. Le sue furono impopolari, ardite, coraggiose, ma anche molto pericolose: se da una parte la sua famiglia lasciò l’Italia per sfuggire alla furia nazi-fascista, dall’altra trovò in Argentina una situazione politica altrettanto instabile. Ben due dei suoi figli finirono nel grande calderone dei desaparecidos, mentre lei stessa fu nuovamente costretta alla fuga nel 1976: raggiunse dapprima Rio di Janeiro e infine fece ritorno alla sua Recanati, in un viaggio che si presenta come un grande cerchio, costellato di eventi, gioie, soddisfazioni, ma anche molta sofferenza. Forse è proprio a causa di quest’ultima che Adelaida morì nel 2010 in un ricovero, dove aveva trascorso gli ultimi nove anni di vita in quasi totale solitudine.

Il libro edito da Nutrimenti che Bravi confeziona con maestria e anche con una perfetta padronanza dell’italiano – nonostante talvolta lui stesso sottolinei la difficoltà di scrivere in una lingua che non sia quella madre – si colloca a metà tra il romanzo e la biografia. Ne dà un grande valore aggiunto la conoscenza personale che si instaurò tra i due scrittori, come d’altra parte accadde anche tra Silvia Ballestra e Joyce Lussu: donne modello, grandi protagoniste del secolo scorso purtroppo quasi dimenticate, che attraverso la voce di chi le ha conosciute e amate tornano al mondo e lasciano una lezione indimenticabile, non soltanto umana ma anche politica.


 

Intervista ad Adrián N. Bravi

Nel 2023 è rientrata nella dozzina dello Strega la biografia di Joyce Lussu scritta da Silvia Ballestra, quest’anno la sua di Adelaida. Entrambe nate nelle Marche, ma poi scappate all’estero a causa del Fascismo; entrambe coraggiose e pronte a sfidare il sistema; entrambe scrittrici; entrambe con un ritorno alle origini, dopo una vita piena e appassionata. Vede anche lei un forte legame tra queste due figure, e perché è così importante riportarle alla luce oggi? 

“Silvia Ballestra, secondo me, è una delle voci più potenti della narrativa contemporanea. Il suo libro, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu, l’ho apprezzato fin da subito: è una biografia molto bella e ben strutturata. È stato un testo di riferimento per scrivere il mio, Adelaida. Anche perché sono due figure, Joyce Lussu e Adelaida Gigli, con alcuni aspetti simili, come è stato sottolineato sopra. Insomma, due donne importanti che ci aiutano a ricostruire la storia del secolo scorso e non solo, anche questo attuale. Nella vita di Adelaida si concentrano tanti elementi che caratterizzano la nostra contemporaneità: l’esilio, la tragedia, l’impegno politico in senso lato, l’impegno artistico, lo sradicamento. Ci sono tante vite dentro la sua. Per questo ritengo che sia fondamentale riscattare queste figure che hanno tracciato il nostro percorso storico. A volte è necessario dare loro voce per capire chi siamo. Attraverso Adelaida ho compreso meglio la storia argentina, per esempio, ho potuto guardarla da dentro, toccare con mano le sue tragedie”.

La sua è una vera e propria biografia. Come si è svolto il lungo lavoro di ricerca per reperire tutte le informazioni?

“Ho attinto a diverse fonti, sia per poter ricostruire la storia e il contesto, sia per poter raccontare la vita di Adelaida e quella dei suoi figli. C’è molta letteratura sul periodo della dittatura argentina, ma quasi nulla, salvo alcuni accenni, sulla vita di Adelaida. La fonte principale sono state le lettere che un suo nipote mi ha reso disponibili, insieme a tutti i suoi saggi, racconti e poesie. Le sue lettere, quelle che spediva al padre e al fratello, mi hanno aiutato a capire i suoi spostamenti ma, soprattutto, i suoi stati d’animo. Quel sentimento d’incertezza, per esempio, quando è stata costretta a fuggire da Buenos Aires per recarsi in Brasile e attraversare in modo rocambolesco la frontiera; oppure, quando dichiara di non sapere cosa avrebbe fatto l’indomani. Incertezze che, quando arriverà a Recanati (il suo paese nativo, ma anche d’accoglienza), scompariranno per lasciare spazio alla solitudine. Quindi, da una parte c’è il lavoro storico su alcuni testi importanti: La voluntad. Una historia de la militancia revolucionaria en la Argentina, a cura di Eduardo Anguita e Martín Caparrós, pubblicato nel 1997, per esempio; dall’altra il vissuto attraverso la sua testimonianza diretta (lettere, foto e manoscritti vari)”.

Oltre all’intellettuale e all’artista, c'è il ritratto della madre di due figli desaparecidos. Anche questo è un altro elemento di oblio collettivo. Lei ha avuto la fortuna di conoscere Adelaida e di diventare suo amico. Ci può svelare qualcosa in merito a questo aspetto intimo del lutto e della solitudine, che hanno caratterizzato l’ultima parte della sua vita?

“Credo che non sia stato facile per lei vivere lontano dai suoi affetti, dalla sua città, la Buenos Aires che l’ha vista crescere, dai suoi amici, ma soprattutto dai suoi figli. Penso che sia straziante per una madre non avere una pietra dove piangerli. E lei ha voluto lo stesso destino: nessuna lapide cimiteriale che la ricordasse. Una comunione attraverso l’assenza dei corpi. Penso che l’elaborazione del lutto sia molto complicata e duri tutta la vita. Per lei l’arte in generale, ma mi riferisco nello specifico alla ceramica e alla poesia, è stata un modo per poter fare i conti con la morte; per questo, mi piace pensare, la bellezza per lei era una ferita aperta. La cercava attraverso il dolore della perdita e della solitudine. Sicuramente faceva i conti con i sensi di colpa per il fatto di non aver avuto l’autorità di allontanare i figli dalla lotta contro il potere. Qualunque genitore si sentirebbe in colpa per non aver fatto abbastanza, anche se entrambi erano consapevoli del rischio che correvano. Qualche volta Adelaida mi ha accennato a questo rimpianto, ma era molto intimo, molto suo e non lo dava a intendere. Viveva il suo lutto come un sentimento privato, senza mai farlo pesare”.


 

 

Romanzo senza umani di Paolo Di Paolo (Feltrinelli)

Rientrato nella sestina dello Strega 2024, Paolo Di Paolo è uno degli autori oggettivamente più amati e letti della dozzina. Lo si è notato anche nel corso di Macerata Racconta, quando al suo arrivo in sala si sono alzati copiosi gli incitamenti e ad ogni sua risposta sono arrivati applausi a profusione. Noto anche per aver scritto altri romanzi di successo tradotti in molte lingue e per pubblicare articoli con costanza in importanti testate italiane, Di Paolo si concentra questa volta su una storia intima e al contempo universale. Si tratta del viaggio lungo le rive di un grande lago tedesco da parte di Mauro Barbi, professore di storia che – giunto ormai a una certa età – inizia ad essere tormentato dall’idea di come gli altri (le persone che ha conosciuto più o meno approfonditamente, le ex fidanzate, gli amici, i colleghi, gli ex alunni) ricorderanno la sua persona. Romanzo senza umani, edito da Feltrinelli, è un percorso solo in apparenza attraverso i paesi che toccano le rive del lato; in realtà il protagonista riavvolge la sua storia personale ricontattando persone che non sentiva da tempo e scoprendo che ogni episodio della sua vita è stato interpretato, sentito, sperimentato in maniera del tutto diversa proprio dai cosiddetti “altri”. È fortissima la presenza del “si”, il grande altro che giudica e non lascia scampo, da cui speriamo sino alla fine di essere assolti, accolti, perdonati nei nostri errori.

Tra le righe di questo libro originale, che peraltro è lo stesso Di Paolo a leggere su Audible dando voce alle perplessità, a tratti buffe e ironiche, di Mauro Barbi, c’è anche il discorso fondamentale del cambiamento climatico, o meglio del rapporto tra l’uomo e l’ambiente: ne risulta – specie attraverso una rocambolesca diretta televisiva con un programma generalista – un disinteresse diffuso nei confronti del nostro futuro, come pure del presente e ancor più del passato. Tanto che si è portati a chiedersi che significato abbia oggi studiare la storia, andare a fondo negli eventi che furono, se poi non si è disposti né ad analizzarli davvero né ad imparare da essi. Eppure Barbi in qualche modo riesce a compiere questo suo viaggio fantasmagorico, non privo di momenti di epifania.


 

Intervista a Paolo Di Paolo

Da dove nasce l’idea di scrivere questo romanzo, dove troviamo molti temi interessanti intrecciati tra loro?

 “La prima idea coincide con il titolo: si può scrivere un romanzo senza umani? Senza, cioè, figure umane? In teoria sì, forse anche in pratica, e tuttavia c’è un occhio umano che osserva anche il paesaggio naturale, il non umano. Poi è arrivato il personaggio: uno storico di mezza età che viaggia intorno a un lago nel cuore dell’Europa. Un lago che gelò completamente quattro secoli e mezzo fa. Ossessionato come è - in quanto storico, e in quanto uomo malinconico - dalla memoria, comincia a interrogarsi sul rapporto tra l’effettiva sequenza di eventi che definiamo “passato” e il suo racconto, l’immagine quasi romanzesca che ne scaturisce e si deposita. Questo può valere per il tardo Cinquecento, ma anche per la nostra stessa vita: la nostra memoria è racconto, rielaborazione, perfino immaginazione. E se confrontiamo i nostri ricordi con quelli altrui, le certezze sul passato iniziano a vacillare…”.

Non è la sua prima volta da finalista al Premio Strega. Come vive questa esperienza ora rispetto ad allora?

“Ero, se non ai primissimi passi, alla prima occasione di larga visibilità. Il passaggio allo Strega nel 2013 fu per me decisivo, mi consentì di scommettere sulla scrittura a tempo pieno. Oggi sono in una fase diversa, ma credo sia una delle poche occasioni per un autore di farsi conoscere da una platea ampia, e di illuminare non solo l’ultimo libro, ma un intero percorso”.

Tempo fa ha pubblicato sul suo profilo Facebook un post a proposito della dicitura Questo romanzo non è prodotto da un’intelligenza artificiale: secondo lei molti lavori verranno sostituiti dall’IA? Siamo di fronte a una rivoluzione epocale?

“Il mio post era una piccola provocazione che mi sembrava utile: non come petizione anti-tecnologia, tutt’altro, ma appunto come invito alla riflessione sull’uso dell’IA in campo creativo. Non credo sia necessario arginarla, ma ragionare per tempo su come indirizzarla e controllarla. E in ogni caso, anche in un settore non centrale come quello espressivo/creativo, occorre stabilire una linea di demarcazione, un confine fra prodotto integralmente umano e prodotto di un'intelligenza non umana. L’idea di un “bellissimo” romanzo scritto da IA non mi sorprende e non mi spaventa, ma che sia e resti chiara la differenza tra ciò che viene dalla singolarità - e dalla paura, dall’imperfezione, dal sudore o dalla gastrite - di un umano, e da ciò che nasce da una macchina addestrata”.  


 

 

L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi)

A L'età fragile dedichiamo uno spazio modesto: in primo luogo in quanto lo abbiamo ampiamento recensito qui quando è uscito nelle librerie e in seconda istanza perché crediamo che si rivelerà essere il vincitore del Premio Strega 2024, pertanto ci sarà modo di tornare a parlarne. Fino ad oggi si è sempre classificato al primo posto nelle graduatorie, vincendo già peraltro il Premio Strega Giovani 2024: proposto da Vittorio Lingiardi, si è aggiudicato l’ambito riconoscimento con 138 preferenze su un totale di 605, ed è stato quindi il libro più votato da una giuria di ragazze e ragazzi tra i 16 e i 18 anni provenienti da 103 scuole secondarie superiori distribuite in Italia e all’estero. Il romanzo della Di Pietrantonio è anche quello che distacca enormemente tutti gli altri da un punto di vista di vendite, grazie alla fama raggiunta dall’autrice con L’Arminuta, al film che da esso è stato tratto e al suo seguito Borgo Sud, sempre da noi recensito quando fu finalista al Premio Strega 2021, oltre a vincere altri concorsi importanti.

Se qualcosa a proposito della storia e della trama de L’età fragile (edito da Einaudi come tutte le altre opere dell’autrice) lo si vuole comunque dire, possiamo sintetizzare che si tratta di una storia ispirata a un tragico fatto di cronaca realmente accaduto: il femminicidio di due ragazzine stuprate e assassinate da un coetaneo. A questa vicenda l’autrice intreccia il delicato rapporto tra madre e figlia, che non riescono a comunicare tra loro neppure quando la giovane vive un piccolo trauma nel periodo universitario e perde la voglia di vivere; sarà proprio l’interesse per la sua terra e per ciò che in essa accade a risvegliarla dal suo torpore, in un esempio plausibile e veritiero di come talvolta le nuove generazioni non aspettino altro che il giusto stimolo per tirare fuori tutto l’entusiasmo e l’energia di cui dispongono.  


 

Intervista a Donatella Di Pietrantonio

Con questo romanzo lei tocca un tema di grande attualità come la violenza di genere. Quale contributo può apportare a suo parere la letteratura in questo ambito? Pensa che rispetto all’epoca in cui si svolsero i fatti che racconta siano stati compiuti tanti o pochi progressi in merito?

“La letteratura ha la possibilità di rinominare anche i fatti di cronaca accaduti in un passato non recente, può elaborarli con le parole e la sensibilità dell’oggi. Nel ’97 si parlò di delitto o massacro del Morrone, è da lì che ho tratto spunto per L’età fragile. Oggi lo chiameremmo duplice femminicidio. Sappiamo che quelle due ragazze furono uccise non per caso, ma in quanto donne. La Storia contemporanea è selettiva, veloce, lascia zone d’ombra soprattutto su certi temi come la violenza di genere, che diventano ripetitivi e producono assuefazione, anestesia. Con la scrittura si può selezionare un dettaglio, andarci a fondo, incarnarlo nel presente e provare a renderlo universale. Certamente ci sono stati progressi, anche riguardo al linguaggio, appunto. Ma se ogni tre giorni viene tolta la vita a una donna, significa che non abbiamo fatto abbastanza”.   

È la seconda volta nel giro di poco tempo che arriva a un passo dallo Strega. L’emozione e la speranza sono sempre le stesse o è cambiato il modo in cui vive l’attesa?

“Emozione e speranza sono sempre presenti, anche se è un’esperienza che ho già vissuto. Niente è mai uguale a sé stesso. A me piace rimettermi in gioco, ancora, in un’età che potrebbe indurre a un maggior consumo di ciabatte. Inoltre mi interessa questo viaggiare insieme tra scrittrici e scrittori nelle tante tappe dello Strega tour, che avvicinano i nostri libri ai lettori. È per me l’occasione di scambi che di solito non mi capitano.  

Quanto ha inciso nella sua carriera il fatto che L'Arminuta sia diventato un film?

“Carriera non è tra le mie parole preferite, soprattutto per quanto mi riguarda. Nel mio percorso un film non l’avevo davvero previsto. Anche il lavoro di sceneggiatura – accanto a Monica Zapelli - è stato del tutto nuovo per me, mi ha dato la possibilità di portare all’estremo la scrittura per sottrazione che già applicavo sulla pagina. Comunque vedere un mio romanzo diventare film è stata un’emozione unica, era un sogno che neanche avevo osato sognare. Ringrazierò sempre Giuseppe Bonito per la sensibilità e il rispetto che ha mostrato verso la storia e i personaggi. E sullo schermo erano così sorprendenti, incarnati nei corpi e nei volti di attrici e attori”.                 


 

 

Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio (Minimum Fax)

Lo si potrebbe paragonare al Ferrovie del Messico dello scorso anno: non certo per stile, contenuti e ampiezza, quanto piuttosto per incarnare la particolarità che colpisce e, a sorpresa, raggiunge risultati inaspettati. Se il romanzo di Griffi era stato proposto niente meno che da Alessandro Barbero e non era riuscito a entrare nella cinquina finalista, ma aveva comunque catalizzato l’opinione pubblica aprendo ampi dibattiti, Autobiogrammatica di Giartosio è ugualmente stato candidato da un gigante della letteratura italiana: Emanuele Trevi. Un altro punto di contatto sta nelle case editrici indipendenti che hanno dato alle stampe le opere: Laurana Editore nel caso di Ferrovie del Messico, Minimum Fax per Giartosio, che, proprio grazie alla regola del Premio Strega secondo cui “se nella graduatoria dei primi cinque non è compreso almeno un libro pubblicato da un editore medio-piccolo, entra alla seconda votazione il libro con il punteggio maggiore, dando luogo a una finale a sei candidate e candidati”, è riuscito ad arrivare in finale e concorre ora per il  primo posto insieme agli altri. Infine, c’è l’aspetto dell’originalità e della grande creatività degli autori, i quali in entrambi i casi sono stati in grado di dar vita a qualcosa di diverso, fortemente studiato e di certo non mainstream, ma proprio per questo di particolare interesse e valore.    

“L’Autobiogrammatica che avete tra le mani è un gioco sorprendente e vertiginoso: il racconto di un’esistenza – unica e comune – come la storia di un linguaggio”: è con queste parole che Minimun Fax presenta il libro, un gioco di nomi, lessico famigliare, insulti, scherzi, lingue straniere, codici segreti, poesia. La parola è al centro di tutto, ben al di là del contenuto o della trama; non si tratta di un classico romanzo, né di un libro di narrativa: è letteratura sperimentale che ben ci sta nella finale di un Premio Strega, quantomeno per la capacità di indure i lettori a prendere in considerazione qualcosa di alternativo, che li porti a uscire dalla loro comfort zone per avventurarsi verso strade meno battute. E se è vero che quando abbiamo pensato a un parallelo tra questo titolo e Ferrovie del Messico dello scorso anno lo abbiamo fatto in maniera del tutto indipendente, il riscontro lo ritroviamo nelle pagine social dell’autore. È infatti lo stesso Giartosio a decidere di pubblicare la prima stroncatura netta, proprio come fece a suo tempo Laurana Editore con le sue Ferrovie, a dimostrazione del fatto che la critica non è sempre cosa negativa: talvolta fa crescere, o quantomeno riflettere; altre volte regala visibilità e apre al dibattito; in molti casi è indice di incomprensione, ovvero dell’ermetismo che l’opera si porta appresso, con tutto il suo mistero e il suo fascino letterario.


 

Intervista a Tommaso Giartosio

Il suo è un libro tra i più originali della dozzina (e della sestina). A quali autori si è ispirato per scriverlo?

“Il riferimento più esplicito è a Lessico famigliare. È un grande libro, che però fa qualcosa di diverso dall’Autobiogrammatica: Ginzburg celebra l’unità del nucleo, io cerco di raccontarne le tensioni nascoste, e soprattutto estendo l’indagine a tutti i linguaggi che mi hanno formato – gli amici, la scuola, la poesia, le lingue straniere… In questo senso il libro è più vicino (fatte le debite proporzioni) a quelli di Proust, o ancor più di Michel Leiris. Le nostre parole chiave, i versi, gli insulti, le gaffe, le preghiere, le sigle politiche, raccontano chi siamo; e soprattutto non mentono. A interrogarle davvero, non mentono mai”.

Lei è anche un poeta e il conduttore di un celebre programma radiofonico. In che modo questi due linguaggi hanno influenzato la sua scrittura in prosa?

“La poesia è stata importantissima. Mi ha mostrato che scrivere significa conferire alle parole il massimo di intensità e musicalità (un amico mi ha fatto felice descrivendo il mio stile con un aggettivo spagnolo: “cadenzioso”). La radio ha influito meno, ma in realtà credo che sia stata un utile correttivo a ciò che avevo appreso dalla poesia: mi ha fatto capire che alla densità occorre unire o alternare una certa scorrevolezza narrativa, altrimenti la pagina non viene digerita, si ferma sullo stomaco...”

In questo libro riporta al centro il linguaggio e la parola. A suo parere, nell’era del digitale, dei social network ma anche della manipolazione mediatica/politica, la parola ha perso o ha conquistato potere? Come è cambiato il suo ruolo nella società?

“Viviamo in un’epoca di rinnovamento linguistico vorticoso, anche per merito del digitale: parlo di “merito” perché si tratta di un’evoluzione che in sé non mi dispiace. La parola ha più potere di prima. Purtroppo lo ha soprattutto quando fa massa, quando diventa big data, trend virali, hackeraggio e trollaggio sistematico. Per le parole oggi vige una leva obbligatoria, mentre ci sarebbe bisogno (mi scuso, di questi tempi, per la metafora bellica) di più franchi tiratori, che sappiano utilizzare i nuovi linguaggi in modo realmente originale e profondo”.

 

Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi (Einaudi)

E invece sì, si raccontano eccome alcune esperienze personali, dolorose, a tratti imbarazzanti, se serve non soltanto come mero sfogo della propria sofferenza, ma per creare una sorta di comunione ed empatia con tutte colore che certi drammi li hanno vissuti nel proprio personale silenzio. Il romanzo – totalmente e coraggiosamente autobiografico – di Antonella Lattanzi è un’opera al femminile, perché si rivolge a quelle donne che in qualche modo hanno bisogno di ascoltare certe parole. Einaudi è la casa editrice con cui l’autrice, già nota al grande pubblico per le sue precedenti opere di successo, tra cui Questo giorno che incombe, ha dato alle stampe Cose che non si raccontano, senza dubbio il suo lavoro più esposto. In esso la Lattanzi si mette a nudo e racconta la sua vicenda di mancata maternità, su cui in molte potranno riconoscersi. Ma se è vero che la sua è una storia corale, accaduta in modi simili a molte più persone di quante si possa immaginare, è altrettanto vero che si manifesta come episodio oltremodo raro, le cui caratteristiche specifiche – la perdita di tre embrioni, aventi tutti la stessa sacca e dunque gemelle monoamniotiche – sono talmente uniche e improbabile da far sorgere nell’autrice numerosi dubbi e persino sensi di colpa. Perché proprio lei anni prima, come probabilmente è accaduto ad altre donne, aveva volontariamente interrotto due gravidanze, non ritenendo che quello di allora fosse il momento giusto. Quando poi il desiderio di diventare madre si manifesta, ma nessuna cura e sperimentazione ha esito positivo, come interpretare una simile sfortuna? Dubitare di sé stessi, di un dio, di tutto, della vita stessa che si prende gioco di lei?

In questo viaggio nella sofferenza più viva e reale, la scrittura è sempre un’ancora di salvezza. Per Antonella scrivere è stare al mondo, distrarsi, andare avanti, avere una motivazione a reagire. Un amore che, se da una parte è viscerale e innato proprio come quello che si potrebbe provare per un figlio, dall’altra non è mai paragonabile alla maternità. Anzi, talvolta si contrappone ad essa, in quel conflitto tra carriera e realizzazione genitoriale che spesso le donne sono obbligate a sperimentare. La lettura di questo libro non è cosa semplice: i termini sono espliciti, il dolore è palpabile, la natura umana ne esce nuda e cruda, mai edulcorata. Tuttavia è una prova che conduce versi lidi sconosciuti e per molte un approdo fatto di riconoscimento, comprensione, speranza.


 

Intervista ad Antonella Lattanzi    

La sua è una storia che, in questo preciso momento storico, riguarda effettivamente moltissime donne, forse la maggioranza (pur con i dovuti distinguo). È stato difficile raccontare così tanto di sé?             

“Cose che non si raccontano è un romanzo autobiografico, nel senso che tutto quanto scritto è realmente accaduto, anche se per me non è così importante se un libro sia autobiografico o meno; l’importante è l’effetto che si spera di ottenere, ovvero che la storia non parli soltanto di ciò che racconta, ma che parli al lettore e del lettore. Quando ho deciso di scriverla è stato perché non potevo fare altro. Come sempre, quando comincio a scrivere un romanzo è perché non ho nient’altro in testa se non la storia che voglio raccontare. Ho avuto certamente paura di espormi, moltissima, e ho sofferto nel rituffarmi in quell’angolo della mia coscienza dove c’erano le cartelle cliniche e i messaggi scambiati con gli amici, o nel dover ricordare tutte le cose brutte che erano successe (ma anche quelle belle, perché sono le più difficili da riaprire quando non ci sono più).

Ho pensato, però, che quanto mi era successo doveva essere raccontato. E cioè prima decidere di abortire, perché ero molto giovane e non avevo gli strumenti per poter diventare madre, poi cercare per tutta la vita di conciliare il desiderio di maternità con quello di ambizione, e quindi di realizzarmi nella letteratura, nella scrittura, che sono sempre stati i miei desideri più grandi. A un certo punto trovare il coraggio di fare un figlio, cercarlo, non riuscirci naturalmente, entrare allora nel tunnel dell’orrore della fecondazione medicalmente assistita, specie durante il Covid. Rimanere infine incinta, ma riscontrare un problema molto grave con la gravidanza, che poi non è andata a termine; e ancora subire tantissimi episodi di violenza ostetrica. Ecco, tutto quello che mi è successo è un po’ il sunto di ciò che potrebbe accadere a una donna nell’età della riproduzione, eppure di queste cose non si parla: non si parla di aborti subìti, non si parla di aborti decisi, non si parla di quanto può essere difficile la ricerca di un figlio, di quanto può essere distruttivo il desiderio di un figlio, per sé stessi e per la coppia; non si parla mai della paura di avere dei figli, della paura di non essere una buona madre, non si parla mai neppure del percorso di fecondazione medicalmente assistita, o del fatto che tutte le donne, indipendentemente da gravidanze o meno, almeno in un momento della loro vita abbiano subito una violenza ostetrica. Queste donne non avevano una voce per parlare della loro storia; io ce l’avevo e la dovevo usare, dovevo raccontare”.

Recenti pubblicazioni, tra cui Libere di scegliere se e come avere figli, pongono l’accento sul fatto che il desiderio quasi ossessivo di diventare madre sia fortemente condizionato dalla pressione sociale e dal modo in cui veniamo educate sin da bambine. Lei cosa ne pensa?

“Penso che ci sia tantissima pressione sociale in generale sul corpo delle donne e che ci sia sempre qualcuno – spesso gli uomini, ma talvolta anche altre donne – che vogliono decidere sul corpo di una donna nel particolare. Sono quindi d’accordo sul fatto che ci sia una forte pressione da tutti i punti di vista: nella ricerca di un figlio quando lo si vuole, nel non ricercare un figlio quado non lo si desidera, così come nell’ossessione che può prendere una donna – per lo meno per me è stato così – durante la ricerca di un figlio, e infine nel dolore che si può provare quando questo figlio non arriva, o ancora di più, quando lo si perde. Io, appunto, come dicevo prima, ho deciso di abortire e in quella circostanza ho sentito un forte giudizio nei miei confronti, motivo per cui ho deciso di non raccontare a nessuno questa storia; almeno fino a quando non ho iniziato a scrivere questo libro. Neanche i miei più cari amici, neanche la mia famiglia sapevano di questi aborti, perché nonostante io creda fortemente nel diritto all’aborto e questo è un momento importantissimo per ricordare che si tratta di un diritto fondamentale dell’essere umano, mi sentivo in colpa e per una sorta di pensiero magico mi dicevo: ‘se ho abortito non merito di rimanere incinta, se ho abortito non sono una brava madre’. Questo è il frutto del condizionamento sociale, della pressione sociale che c’è sulle donne, del fatto che ci siano sempre altre persone intenzionate a decidere per loro”.

Un grande tema del suo romanzo è la mancanza di comunicazione, o se vogliamo la presenza di una comunicazione sulla maternità “ideologica”: in alcune interviste ha detto che si parla poco della difficoltà della Pma e in generale di che cosa significhi davvero per una donna (e per una coppia) confrontarsi con l’infertilità. Cosa consiglierebbe a chi si trova in una situazione simile a quella vissuta da lei?

“Ho chiamato questo romanzo Cose che non si raccontano a partire da una frase di un bellissimo libro del grande George Simenon: La camera azzurra. Questo pezzo del suo romanzo cita così: “ma queste sono cose che non si raccontano, cose assai semplici che occorre aver vissuto e il giudice non le aveva vissute”. Quando ho letto questa frase ho pensato che la letteratura è fatta tutta di cose che non si raccontano, cose che non vogliamo pensare, cose che non sappiamo, cose che non vogliamo ascoltare, cose che non vogliamo riconoscere perché abbiamo paura di affrontarle, ma anche tutta di cose semplici; in questo caso, il rapporto con il desiderio, con la maternità, con l’amore e con la morte, con le proprie passioni. Quelle che hanno a che fare con la maternità in genere sono cose che non si raccontano per orgoglio, per pudore, perché non vogliamo pensare, non vogliamo rinvangare, non vogliamo ripensare a quanto ci è successo. Ciò che mi ha colpito moltissimo dopo l’uscita del libro, anche ora a distanza di un anno, sono state le tantissime donne, ma anche i molti uomini, che sono venuti da me alle presentazioni per ringraziarmi di aver dato voce a una comunità di persone che non parla mai. Questo caldo abbraccio sul libro e intorno al libro mi ha dato una forza potentissima per continuare a presentarlo, a parlarne con i lettori, perché è molto bello sapere che stai parlando a nome di un gruppo di persone che non ha voce e che appunto non riesce a raccontare queste cose.

A una donna che si trova in una situazione simile a quella vissuta da me consiglierei di non sentirsi sbagliata, sola, cattiva, egoista, non farsi penetrare come mi sono fatta penetrare io dal pensiero magico di non essersi meritata una gravidanza. Consiglierei di reagire quando subisce episodi di violenza ostetrica e suggerirei anche di parlare: adesso è il momento di parlare affinché tutto quello che abbiamo subito non succeda mai più, a noi e alle generazioni dopo di noi. Dobbiamo denunciare, raccontare. D’altro canto consiglierei di leggere dei libri, perché in letteratura non esiste più il razzismo e nei libri davvero non siamo più soli”.


 

 

Dalla stessa parte mi troverai di Valentina Mira (SEM)

Ancora un romanzo storico nella dozzina di questo Premio Strega 2024, che tuttavia fonde la storia – non troppo lontana – al presente e si pone quindi come un testo di estrema attualità. Basti dire che Dalla stessa parte mi troverai della giovane autrice Valentina Mira, edito da SEM Libri, tratta il tema delle carceri e in particolare del suicidio in prigione, argomento scottante di cui quasi ogni settimana si parla nei TG nazionali. Cosa è successo quando un detenuto che sarebbe dovuto essere sotto stretta sorveglianza e massimamente tutelato si è tolto la vita? È andata davvero così? Cosa non ha funzionato? E cosa si nasconde dietro ai molti ingranaggi nascosti della malavita, intrecciata alla politica? Sono numerose le domande che il libro della Mira solleva, alcune delle quali potrebbero senza dubbio definirsi scomode. Ma un premio letterario deve anche e soprattutto saper scomodare l’ordine costituito, perciò ben vengano i testi come questo nella dozzina, portati in tutta Italia per non chiudere un dibattito che ha la necessità di restare aperto.

La storia in sé è abbastanza complicata e va percorsa passo dopo passo. Il 7 gennaio 1978 davanti a una sede del Movimento Sociale Italiano, nel quartiere Appio Latino di Roma, vengono uccisi a colpi d’arma da fuoco due attivisti di destra: da quel momento, i morti di Acca Larentia diventano icone intoccabili del neofascismo. Una decina d’anni più tardi, esattamente il 30 aprile 1987, viene arrestato Mario Scrocca, militante di estrema sinistra, con l’accusa di aver fatto parte del commando che colpì ad Acca Larentia. I dubbi e le incongruenze sono molte, ma non c’è il tempo di indagare o di porre domande, perché appena ventiquattro ore più tardi Scrocca viene trovato impiccato in una cella di Regina Coeli; la stessa in cui in passato altri episodi simili si erano verificati, nonostante sia una camera ad alta sicurezza proprio per evitare fatti del genere. È interessante notare che il romanzo della Mira è diventato subito un caso: attaccato dalla destra (più o meno estrema), difeso dalla sinistra, secondo l’autrice è stato ingiustamente politicizzato, mettendo in secondo piano il tema delle carceri e la vicenda specifica di Scrocca, che rischia di passare inosservata sotto al grande “putiferio” generato da più voci. A parlarne è anche il collega Paolo Di Paolo – insieme a lei nei tour del Premio Strega 2024 – su La Repubblica: «Mira costruisce una sorta di reportage emotivo dal decennio che precede la sua nascita, interessata essenzialmente a dare voce al dolore di Rossella [moglie di Mario Scrocca]. Non offende la memoria delle vittime; non dà un contributo alla «fiera del revisionismo», come la vicecapogruppo di FdI alla Camera Augusta Montaruli definisce addirittura questa edizione del Premio Strega. Si ferma su un dettaglio ulteriormente doloroso di una storia tragica. [Racconta] una morte derubricata come «danno collaterale», ingiustizia nell’ingiustizia. Chi può sindacare sul diritto di raccontarla? Usare pretestuosamente un romanzo e un premio letterario per giocare alla guerra dei revisionismi e difendere pantheon comunque indifendibili è, più che discutibile, pericoloso».


 

Intervista a Valentina Mira

La sua è una storia forte che svela i fatti dietro alla retorica, senza fare sconti. Da dove è nata l'esigenza di raccontarla e come si è svolto il lavoro di documentazione?

“L’esigenza di raccontarla nasce da una sensazione di ingiustizia, e dal desiderio di restituire un tassello importante di memoria antifascista. Il libro è solo il punto finale di una staffetta collettiva, partita da Rossella (Scarponi, moglie di Mario Scrocca) e la sua famiglia, dal suo e dal nostro lavoro di ricerca sulle carte dell’epoca, gli articoli, un documentario-inchiesta. Per rendere conto della poca cura che ci fu al tempo: i giornali la chiamavano Patrizia”.

Avrebbe mai immaginato di arrivare finalista a un premio così importante? Cosa si augura per il suo romanzo?

“Assolutamente no, non immaginavo neanche di finire nella “short list” degli 82, figuriamoci in dozzina. Tutto quello che sta succedendo al libro è un dono, per cui lo vivo con gioia. Quello che mi auguro per il romanzo è di essere accolto con la cura che a questa storia e a questa famiglia non sono state riservate negli ultimi decenni”.

Con la stessa sincerità e con lo stesso coraggio con cui ha scritto questo libro, ci può dire che cosa pensa del clima che si respira oggi in Italia? C’è secondo lei la nostalgia di un certo passato?

“Più che il clima che si respira mi preoccupano gli attacchi strumentali al libro, attacchi da parte di chi non lo ha proprio letto. Cercando di legittimare un odio che nei miei intenti non c’era proprio. Nostalgia a parte, volevo solo raccontare di una storia d’amore e del suo potere salvifico”.

 

Storia dei miei soldi di Melissa Panarello (Bompiani)

Melissa Panarello è già ben nota ai lettori italiani – quantomeno per sentito dire e per il film tratto dal suo bestseller più noto –, perciò non ci soffermiamo nella presentazione dell’autrice. Il suo nuovo romanzo Storia dei miei soldi esce edito da Bompiani e tratta il tema dell’indipendenza economica femminile, a partire dalla storia di Clara. C’è molto di autobiografico in questo racconto, come conferma la stessa Panarello, ma c’è anche fiction per forgiare il personaggio di Clara, che potrebbe rappresentare una delle molte figure femminili del presente o del passato travolte da un successo tanto repentino quanto sfuggente. Che cosa accade in una coppia quando è la donna a guadagnare di più? Chi e perché si permette di chiedere quanti soldi abbiamo? Dovremmo forse sentirci in colpa a parlare apertamente di denaro, argomento che molto inflazionato, ma in realtà ancora oggi tabù? Queste sono solo alcune delle domande che l’autrice solleva attraverso un romanzo scorrevole, adatto anche a una lettura estiva.

Dalla sinossi della casa editrice: «A raccontarci questa storia è una scrittrice, resa famosa quando era molto giovane da un audace romanzo nel quale metteva in scena sé stessa. Adesso è una donna adulta, ha costruito una famiglia e le sembra di avere compreso che scrivere per lei è stato il frutto di un’urgenza ora sopita. Ma la vita si incarica di dimostrarle che per conoscersi veramente bisogna trovare lo specchio in cui guardarsi e mette sul suo cammino Clara, l’attrice che quindici anni prima è stata il suo doppio nel film tratto da uno dei suoi romanzi. Clara è ancora bella, ma i suoi grandi occhi verdi a tratti diventano laghi di vergogna; Clara ha fame ma deglutisce con fatica; Clara non ha più soldi, e trova il coraggio per chiederli a chi incontra. Più di tutto, Clara ha bisogno di raccontare la sua storia e improvvisamente questa diventa una missione che le riguarda entrambe. Per le due protagoniste comincia un viaggio che si dipana sulle tracce del solo alimento che – insieme alla passione – può consentirci di diventare chi siamo: i soldi».


 

Intervista a Melissa Panarello

Il suo libro tratta il tema dei soldi: secondo lei come mai esiste ancora questo tabù in una società capitalista come la nostra? Legherebbe il fastidio che un uomo prova quando una donna guadagna più di lui a qualche forma di patriarcato, o le ragioni sono altre?

“I soldi ti rendono libera, e dunque la libertà è potere. Le donne con il potere sono mal viste, perché le donne libere sono potenti: ovvero, possono. Cosa possono? Tutto. Innanzitutto realizzarsi nei modi e nei tempi che ritengono più opportuni. Fare a meno di un uomo e di una famiglia opprimenti, se vogliono. Una cosa odiosa, per chi vuole mantenere il controllo su di te”.

Dalle prime esperienze letterarie fino al Premio Strega. Lo avrebbe mai immaginato? Che cosa significa questo risultato per lei?

“Le mie esperienze letterarie non sono ferme all’età giovanile, dal mio esordio ho scritto 16 libri, fra cui 5 romanzi, diversi saggi, libri e romanzi per bambini. Non sono arrivata a questo risultato dopo un grande salto dai miei 17 anni ai miei, attuali, 38: in mezzo c’è il percorso di una persona che non ha mai smesso di fare il lavoro che continua a fare, ovvero quello della scrittrice. Molti scrittori e molte scrittrici si ritrovano e si sono ritrovate e ritrovati nella dozzina del Premio Strega, a un certo punto è toccato anche a me: ne sono felice, molto”.

Ha detto che per scrivere questo romanzo ha impiegato tre anni, un tempo di scrittura per lei molto lungo perché solitamente è più veloce. Come mai questa storia ha richiesto più tempo? E quanto c’è di lei?

“Ho impiegato tanto perché è stato un romanzo complicato da gestire, data la sua formula di non mera fiction, ma nemmeno di mera auto-fiction. È un salto carpiato fra i due generi, e quindi non si può nemmeno parlare di autobiografismo, che per me è un’esperienza letteraria superata da decenni. Tutte le storie parlano, comunque, di chi le racconta. E quindi, in questo senso, la risposta alla tua domanda è: tutto. Di me c’è tutto”.

Il fuoco invisibile. Storia umana di un disastro naturale di Daniele Rielli (Rizzoli)

Un fatto vero, accaduto forse a partire dal 2008 – quando si ipotizza che l’agente patogeno Xylella sia arrivato per la prima volta nell’Italia meridionale – e cresciuto a dismisura fino ad esplodere negli scorsi anni, provocando infine la morte di almeno 21 milioni di ulivi, tra cui molti alberi secolari e millenari. Come a dire, in termini di ampiezza, l’intera provincia di Lecce; in termini di valore un patrimonio insostituibile. È quanto Daniele Rielli, anche lui giovanissimo scrittore già impegnato da un punto di vista giornalistico sull’argomento, ha voluto raccontare nel libro Il fuoco invisibile. Storia umana di un disastro naturale, edito da Rizzoli. Lo ha voluto fare innanzitutto perché su questa tragedia collettiva e ambientale aveva molto materiale raccolto nel corso di un lungo processo di ricerca e documentazione, ma anche perché è stato testimone in prima persona di come la testardaggine umana, la diceria, il complottismo da bar, talvolta persino il sano attaccamento alla terra possano deviare in una ceca follia comunitaria. Daniele, infatti, dentro a questa epidemia inattesa ci è finito suo malgrado in quanto la famiglia possedeva alcuni terreni in Puglia: più volte si è ritrovato a fare viaggi per raggiungere gli ulivi infetti e tentare di comprendere cosa stesse accadendo; poi, in un secondo momento, per cercare di convincere gli abitanti di Gallipoli e delle zone limitrofe a tagliare le piante infette al fine di evitare l’estendersi della malattia, un po’ come si fa quando una parte del corpo va in cancrena. Ma da queste parti l’albero è una pianta sacra, è un simbolo, impossibile pensare di ucciderlo; specie dopo il Covid, quando molte persone hanno perso fiducia nella scienza e di conseguenza hanno preso sempre più forza le più disparate teorie complottiste, attraverso informazioni trasmesse via Telegram, WhatsApp, YouTube o altri mezzi di comunicazione non mainstream. Paradossalmente la credenza popolare, di fronte al dramma e alla fragilità delle proprie radici, assume potere. Così, da paradiso terrestre la Puglia – o per lo meno una parte di essa – si è trasformata a poco a poco in un gigantesco cimitero vegetale, perdendo proprio quell’identità profonda per cui apparentemente si è sempre battuta.

Daniele Rielli ha camminato dentro le ceneri di questo cimitero già da quando aveva appena iniziato a diventarlo, compiendo sempre lo sforzo di sospendere il giudizio, restando per quanto possibile obiettivo nel raccontare i fatti. Per anni da una parte ha parlato con gli scienziati che studiavano il batterio, ma dall’altra ha incontrato i negazionisti che non hanno mai creduto alla malattia, ha ascoltato le motivazioni degli agricoltori senza trarne una conclusione personale, così come quelle dei frantoiani che cercavano di salvare le loro aziende; e ancora, ha studiato i documenti, interrogato le persone in vari modi coinvolte in questa terribile e assurda vicenda, surreale persino, percorrendo migliaia di chilometri ben oltre il proprio terreno. Desiderava conoscere, capire e documentare: ne sono usciti alcuni articoli e poi questo libro, che è il racconto di un dramma ecologico e al contempo sociale, narrato come se fosse un romanzo corale, attraverso più voci. Un’opera utile, oltre che di valore letterario, perché indaga a fondo chi siamo, in quale società stiamo vivendo e ci apre spiragli (non del tutto positivi) verso il futuro che si aspetta.


 

Intervista a Daniele Rielli

Il tema del suo romanzo è originale e immagino che abbia implicato un lungo lavoro documentaristico. Come mai questa storia l’ha colpita così tanto e come si è mosso per la parte di ricerca?

“La mia famiglia possedeva degli ulivi da generazioni, pochi, ma molto importanti a livello affettivo. Quando è comparsa la malattia ho cominciato a studiarla e scriverne per Internazionale, Il Venerdì di Repubblica, il Sole 24 ore e per una rivista svizzera. Negli anni ho conosciuto persone che sono state travolte dalla malagestione di questa epidemia e sono state vittime di una lunghissima e surreale caccia alle streghe. Al tempo stesso ho scavato nella storia della mia famiglia e del suo rapporto con gli ulivi, quindi il libro nasce dall’unione di queste due linee. A livello di ricerca si basa su più di cento ore di interviste, circa 10.000 pagine di documenti e quasi dieci anni di lavoro.  Tutto questo reso nella forma più narrativa possibile, perché non mi interessava scrivere un saggio, volevo creare un romanzo ibrido: appassionante ma reale in ogni dialogo, in ogni personaggio, in ogni fatto raccontato”.  

Questo libro tocca due temi attuali e controversi: il crescente potere dei social e di pari passo quello del complottismo. Come mai, secondo lei, c’è così tanto scetticismo nei confronti delle fonti di comunicazione ufficiali e della scienza, mentre si tende a credere con estrema facilità a tutto quello che si legge sui social? Non è un paradosso?

“Il problema è il radicale peggioramento della qualità dell’informazione, in generale. Il giornalismo non fa eccezione, se confrontiamo un giornale del 2004 con uno del 2024 c’è da prendere paura. La fiducia del pubblico nei media tradizionali è ai minimi storici e spesso con buone ragioni: nella storia di Xylella, ad esempio, per anni molti giornali e tv hanno amplificato acriticamente le teorie del complotto nate sui social, quindi tracciare una linea così netta non è tecnicamente corretto, anche perché online ormai ci sono tantissimi professionisti che fanno ottima informazione, divulgatori, podcaster, youtuber. Detto questo, di fronte alle crisi sociali e cognitive, come è stata e in parte ancora è, quella di Xylella in Puglia, l’architettura dei social network non ha sicuramente aiutato e quella parte della cultura italiana che è storicamente propensa alla retorica, alle teorie del complotto, al massimalismo un po’ cialtrone, ha trovato un canale di amplificazione importante. I risultati sono stati devastanti, l’epidemia delle piante si è trasformata prima in una crisi epistemologica e poi in una caccia alle streghe contro gli scienziati. La storia raccontata nel mio libro va molto oltre una malattia degli ulivi, è una parabola universale su cosa succede quando una piccola comunità comincia a credere compattamente in delle menzogne e cerca un capro espiatorio a cui dare la colpa del collasso che viene a crearsi di conseguenza”.


 

 

Aggiustare l’universo di Raffaella Romagnolo (Mondadori)

Esiste ancora qualcosa da dire sull’Olocausto e sulla Seconda Guerra Mondiale? E si può riuscire a farlo con originalità, dopo tutto quello che è già stato detto e scritto? La risposta è assolutamente affermativa, come potrà confermare chi ha letto Aggiustare l’universo, il romanzo di Raffaella Romagnolo edito da Mondadori – e disponibile anche su Audible – rientrato non soltanto nella dozzina, ma anche nella sestina tra le prime posizioni. È una storia emotivamente coinvolgente, quella che ci narra la Romagnolo, ricca di dettagli per quanto riguarda sia le leggi razziali applicate in Italia contro gli ebrei sia la Resistenza. L’autrice si muove infatti su due diverse linee temporali: la prima segue le vicende nel periodo cruciale, quello che va dall’inizio alla fine della guerra, raccontando gli stessi personaggi nel periodo più traumatico della loro esistenza; la seconda sposta invece le lancette alla fine del conflitto, nell’ottobre del 1945, quando la maestra Gilla ha già perso l’amore della sua vita – partigiano, proprio come lei – e la bambina Ester ha dovuto mutare il suo nome in Federica Pellegrini, per mettersi in salvo e ritrovarsi in un orfanotrofio senza più la capacità di proferire parola. Tra le due figure femminili, così diverse ma unite in quell’ambiente confidenziale e confortevole che è la scuola, si instaura dapprima confidenza, poi amicizia, infine fiducia; fino a quando insieme si metteranno sulle tracce della famiglia di Ester.

È uno dei romanzi più lunghi e al contempo più tradizionali sotto il profilo narrativo del Premio Strega 2024, ma merita tutto lo spazio che si prende per entrare in profondità nella descrizione di quanto accadde in quegli anni in Italia, soprattutto perché ormai sembriamo essercelo dimenticato; è anche un tempo fondamentale per dare alle due protagoniste la possibilità di conoscersi e di affidarsi reciprocamente l’una all’altra, abbattendo le barriere della diffidenza che il dolore ha eretto in entrambe. Eppure, in questa storia sono i sentimenti positivi a trionfare; non solo, chi ama il lieto fine questa volta non resterà deluso, nei limiti di quanto sia possibile chiudere al netto del positivo un dramma umano come quello dell’Olocausto. Raffaella Romagnolo riesce bene a porsi nella parte della narratrice sia quando si concentra sui ricordi nostalgici e al contempo romantici di Gilla, sull’amicizia che sboccia tra Ester e la sua compagna di banco, sulla determinazione della maestra nel voler aiutare quell’alunna che le suscita empatia e tenerezza, sia quando si ritrova immersa nella crudeltà dei campi di concentramento e non deve – non vuole – risparmiarsi dettagli raccapriccianti, persino nel momento che coglie la morte di uomini, donne e bambini nelle camere a gas. Non fa sconti nel descrivere la ferocia dei nazisti e dei fascisti, lo sterminio di intere brigate di giovani salite in montagna per opporre resistenza al nemico, il piano lucido e folle della costruzione dei forni crematori, dei campi, persino della loro demolizione repentina quando i tedeschi si rendono conto che stanno per perdere la guerra e sono costretti alla ritirata, coprendo come possono – male – le tracce del massacro compiuto. Un’agilità che ci restituisce un racconto originale, intenso, preciso e quanto mai importante di una pagina di storia già finita nel dimenticatoio.


 

Intervista a Raffaella Romagnolo

Come parte e come poi si sviluppa la stesura di  questo romanzo?

“Ho cominciato a ragionare su questa storia nel 2019, ma ho capito effettivamente di cosa parlava il romanzo solo qualche mese dopo, in piena pandemia, quando hanno chiuso le scuole. Da docente ho condiviso con i colleghi l’imperativo di fare lezione in qualunque modo. Più fosco è l’orizzonte e più è necessario guardare avanti: questo era il sentimento prevalente, e fare scuola è un atto di grande fiducia nel futuro. Non per caso ho quindi ambientato il romanzo nell’anno scolastico 1945-46, l’anno della ricostruzione dopo l’abisso della Seconda Guerra Mondiale. Volevo raccontare il ruolo della scuola in una collettività ferita e spaventata. Tra saggistica, memorialistica e consultazione di vecchi giornali e risorse online, l’attività di documentazione ha portato via molto tempo naturalmente. Ma la ricerca storica è cosa che mi appassiona da sempre”.  

Questa è già la seconda volta per lei come finalista allo Strega, addirittura tra i primi posti della sestina. Come sta vivendo questa esperienza con la maturità di oggi, rispetto al passato?

“La prima volta è tutta una sorpresa. Dopo c’è stata tanta scrittura, e tanta vita, non sempre facile. Alla seconda volta arrivo quindi un po’ ammaccata, com’è normale invecchiando. Ma lo Strega era ed è una grande festa e sto cercando di godermela”.

Il libro tratta il delicato tema dell’antisemitismo, dello sterminio di un popolo e della guerra. Situazioni che si sperava non dovessimo rivivere più, invece circa ottant’anni dopo ci troviamo nel pieno di due guerre atroci, una delle quali coinvolge lo Stato di Israele. Come è possibile, secondo lei? L’essere umano è davvero così incapace di imparare dalla storia, oppure è ormai trascorso troppo tempo e abbiamo già dimenticato?

“Domandona. La storia aiuta a inquadrare meglio il presente, che resta però una faccenda assai complicata ed è per questo che siamo nei guai. Per ragioni anagrafiche stanno scomparendo o abbiamo già perduto i testimoni della guerra. È un passaggio generazionale delicato, insomma. Anche per questo, compito di chi lavora con l’immaginario è salvare, del passato, quello che può esserci utile ad affrontare il tempo feroce che siamo chiamati a vivere”.

Una domanda sulla scuola, visto che è centrale il rapporto tra un’insegnante e un’allieva. Come sta la scuola oggi? Come si potrebbe migliorarla?

“La scuola resta un dispositivo potente di protezione e salvataggio per i singoli e per le comunità. La politica e l’opinione pubblica faticano, però, a riconoscerle nei fatti questa funzione sociale decisiva. La rivoluzione digitale poi, straordinaria conquista evolutiva degli umani, ha complicato ulteriormente le cose, stravolgendo le modalità di apprendimento. Insomma, la scuola affronta ogni giorno una sfida colossale. Un sostegno concreto, sostanzioso, lungimirante, strutturale e non occasionale, aiuterebbe”.


 

 

Chi dice e chi tace di Chiara Valerio (Sellerio)

In sestina la Valerio ci è rientrata senza troppo sforzo, e lo si poteva prevedere con facilità. Basta osservarla mentre presenta i suoi libri – ad esempio, come è stato in  occasione di Macerata Racconta – per capire quanto sia amata: una delle file più lunghe per il firma copie era proprio la sua, mentre ad ogni risposta data a “Loredana Lipperini” – che chiama sempre per nome e cognome – è uno scroscio di applausi. Chiara Valerio è ciò che si definisce una star della letteratura, adorata sia perché sa scrivere, sia perché sa parlare e convincere, nonché per i temi e le battaglie che porta avanti con forza e convinzione, talvolta non senza provocazione. In questo caso, però, il romanzo che arriva finalista al Premio Strega 2024 è un insolito giallo, sebbene ridurlo entro questa categoria sarebbe ingiusto nei confronti dell’opera. Eppure, la parte giallistica non manca: il mistero, la morte di una donna, le indagini per venirne a capo, la lunga sequela di testimoni. Solo che tutto questo nelle pagine di Chi dice e chi tace, edito da Sellerio, diventa il pretesto per raccontare una comunità, tra le cui pieghe si insinua la scintilla della diversità.

Protagonista del romanzo è Vittoria, un personaggio che nella realtà dei fatti non si vede mai, non c’è. E' già morta in una vasca da bagno quando la storia inizia; vive nei ricordi delle persone, nei cambiamenti che ha apportato, nelle domande che ha sollevato, ma di fatto è come se non esistesse. C’è in gioco l’essenza stessa di identità, perché questa donna-fantasma ha saputo rompere la tranquillità di provincia, nella cittadina di Scauri, un piccolo paesino del Lazio affacciato sul Tirreno. E' arrivata portando con sé un'altra donna e riuscendo a farsi subito amare, pur nella sua totale estraneità all’ambiente di cui entra a far parte. Altra grande protagonista del romanzo è poi Lea Russo, avvocatessa affascinata dalla figura di Vittoria e intenzionata a scoprire la verità, non soltanto in merito alla sua morte, ma anche su quanti e quali facce presenti davvero la violenza.


 

Intervista a Chiara Valerio

Da dove è partita l’esigenza di raccontare questa storia, tornando alla sua terra di origine?

“Questo romanzo è nato dall’esigenza di cambiare orizzonte rispetto a un altro libro che stavo scrivendo. L’idea è scaturita perché mio nipote Francesco stava vivendo la sua infanzia a Scauri e io non ci tornavo spesso, quindi mi mancava di rivedere la mia infanzia a Scauri attraverso la sua. Il romanzo è nato anche perché avevo letto una montagna di Simenon e mi era rimasto come un suono e a tendere l’orecchio era un suono di acqua. Di acqua di mare. Non mi piace parlare tanto di esigenza, ma di gioco. Io scrivo per giocare, divertirmi, staccare l’automatismo del pensiero. Credo”.  

È tra le autrici più amate nella sestina del Premio Strega 2024. Come sta vivendo questo momento e che cosa si augura per il suo romanzo?

“Sono molto allegra. È da bambina che guardo il Premio Strega in televisione. E mi è capitato spesso di seguire autori e autrici pubblicati dagli editori per cui ho lavorato e lavoro. Adesso l’autrice che accompagno sono io stessa e ci vado con la stessa educata spensieratezza”.

In un’intervista abbastanza recente a Voce ai libri di Intesa SanPaolo ha detto che non siamo un Paese profondamente conservatore, ma progressista e aperto verso l’altro. Non ha il timore che si possa tornare indietro e perdere certi diritti ormai dati per scontati?

“I diritti sono qualcosa da esercitare. Pensi al diritto di voto e ai dati di presenza ai seggi. Qualcuno potrebbe dire che viste le affluenze basse, andare a votare non sia più necessario. I diritti sono l’esercizio per cui si cerca di abbattere i privilegi e sono una endiadi, diritto e dovere. Non sono dati, come certi frutti e fiori in certe stagioni, ma sono conquiste. Potrebbero sparire. Pensi al diritto all’aborto. Siamo certi che sia un diritto effettivo, quando le obiezioni di coscienza rappresentano una percentuale non trascurabile dei medici? Credo che queste siano domande e questioni che non hanno geografia. Pensi al disequilibrio che rappresenta per la nostra democrazia l’idea che una persona omosessuale, come me, abbia tutti i doveri, ma non tutti i diritti di una persona eterosessuale. In molte parti d’Europa questo disequilibro non c’è. Che spiri però un vento autoritario che tende a limitare i diritti in nome di un’idea di sicurezza mi pare chiaro. Ma è sicuro un mondo dove si cerca di temperare le disuguaglianze sociali, economiche, di genere?”

Un’altra tematica del suo libro è quella della violenza, attorno alla quale l’abbiamo sentita esprimersi molto in tv, specialmente in merito all’omicidio di Giulia Cecchettin. Al di là della questione di genere, come si ferma la spirale della violenza secondo lei? Si può riuscire a educare alla non violenza, nonostante il contesto sociale in cui viviamo?

“La spirale della violenza si ferma denunciando le violenze che si subiscono e raccontando che la violenza non è la soluzione a niente. Che la forza ha senso ed è giusta, ma fino al limite della violenza. Che il mondo non si divide in vincitori e vinti, ma che tutti siamo vincitori e vinti. Si racconta che correggere il male compiuto è difficile, se non impossibile, e dunque bisogna cercare di non compiere il male. Non parlo di cose astratte, ma di cose molto concrete, come non pensare che gli altri esistano perché esistiamo noi, e che volere bene e essere d’accordo siano sinonimi”.


 

 

Invernale di Dario Voltolini (La Nave di Teseo)

Purtroppo non è rientrato nella sestina, ma Invernale, scritto da Dario Voltolini ed edito da La Nave di Teseo, è uno dei romanzi a nostro parere più belli di questo Premio Strega: commovente, profondo, mai stucchevole, eppure a tratti straziante. Breve, brevissimo: una scheggia che arriva e ti lascia con le lacrime agli occhi, perché il tema della malattia, della morte, della perdita è qui trattato con talmente tanta verità e “pulizia” da colpire dritto al cuore. Non ci sono giochi di parole; o meglio, ci sono alcune bellissime metafore, anche calcistiche; ci sono similitudini e immagini astratte talvolta usate per esprimere dei concetti complessi. Ma sono nuvole di poesia in un cielo terso, dove si svolge la narrazione di come un uomo forte, semplice, materiale, sicuro di sé, diventi a  poco a poco un essere fragile che non sa bene come reagire alla paura e all’impotenza.

Invernale racconta la storia del padre del protagonista, che a un certo punto inizia a sentire su di sé una fatica sconosciuta, una difficoltà di concentrazione, un senso di ottundimento generale. Gli esami medici non sono chiari e la diagnosi tarda ad arrivare; quando finalmente arriva è ormai troppo tardi, ma lui ancora non lo sa, come non lo immaginano neppure i suoi familiari e tutte le persone che lo conoscono. E così, nonostante si tenti di fare tutto il possibile, la morte arriva troppo presto. La storia è dolorosa, schietta, ricca di punti di emotività, ma non è tanto questo l’aspetto del libro che lascia dentro un profondo senso di dispiacere ed empatia; è piuttosto il fatto che tutto ciò capiti a una persona di fatto molto semplice e non avvezza alla fragilità, né ai termini medici complicati, né al mettersi troppo in discussione. Eppure guardare in faccia la propria fine porta inevitabilmente a modificare l’intero mondo di cui si fa parte: la malattia deforma le lenti con cui guardare a noi stessi, agli altri, al lavoro, ai figli, ai piccoli gesti quotidiani. Cambia tutto, anche se chi è fuori, sano e al sicuro, non è in grado di capirlo; lo intuisce forse, ma non lo comprende. Così la solitudine è un elemento inevitabile con cui fare i conti, anche quando si vive immersi nel caos di un mercato, a contatto con decine di clienti, nel luogo più vivace e popolato della città.


 

Intervista a Dario Voltolini

Lei ha scritto numerosi libri ed è inserito da tempo nell’ambiente dell’editoria. Come è approdato a questo libro, che riflette sul rapporto tra padre e figlio e al contempo sul deterioramento del corpo (umano e animale)?

“Io credo che l’esigenza di narrare fatti da cui ormai mi separano vari decenni, ma che per me sono vividi nel ricordo e nella vita quotidiana tanto adesso come allora, nasca in realtà dall’interno del mio strumento di lavoro, cioè la scrittura in italiano. Mi spiego: scrivo da molti anni e nel tempo la mia lingua si è evoluta e il mio rapporto con lei è maturato. Questo grazie al fatto di essermi costantemente confrontato con scrittori e scrittrici della mia generazione o più anziani, ma anche, negli ultimi anni, più giovani. Mi sono sentito solo adesso abbastanza padrone del mio strumento per poter concepire questo libro, che per me è il più importante che ho scritto, finora. Il tema del rapporto tra padre e figlio nello scenario essenziale, vitale, ma anche spaventoso, della modificazione dei corpi l’ho quindi potuto scrivere, nel modo in cui l’ho scritto, solo recentemente, cioè due anni fa, perché la mia lingua me lo ha consentito. Ad esempio, mi sono imposto di scrivere Invernale, diversamente da come ho sempre fatto, in un periodo breve, meno di due mesi. A un certo punto si entra in campo e la partita dura un tempo stabilito.

Nonostante i molti riconoscimenti ricevuti, questo è uno dei traguardi più importanti nella sua carriera. Che cosa significa per lei essere rientrato nella dozzina dello Strega?

“Significa molto. Innanzitutto è un onore e un piacere essere stato candidato e poi accolto nella dozzina di questo premio importantissimo e prestigioso. Il mio lavoro, in sede critica, è stato sempre apprezzato. Confido però che questo riconoscimento pubblico possa farmi raggiungere un numero maggiore di lettori e sono felice, se ciò accadrà, di farlo con questo libro”.

Immagino che, dovendo scrivere un libro del genere, lei abbia avuto modo di farsi un’idea in merito all’attuale dinamica tra padri e figli. Si parla molto di patriarcato come causa della violenza di genere, ma si parla anche dell’opposto, ovvero della perdita di autorità paterna che porta a un rapporto non più da genitore, ma quasi da amico (anch’esso, talvolta, deleterio). Come vede la figura del padre oggi, spesso al centro di polemiche e dibattiti?

“Questo è un tema formidabile e non mi reputo all’altezza di poter rispondere, nello specifico, in modo significativo. Tuttavia quello che vorrei dire, in generale, è che ci troviamo in un passaggio globale di ridefinizione, di critica, di demolizione e di ricostruzione dei nostri modi di vivere. È un processo dolorosissimo, ma anche meraviglioso. Va da sé che nel momento in cui l’intero impianto patriarcale deve essere ripensato e probabilmente smantellato, sia la figura del padre a catalizzare il massimo possibile delle tensioni. Ma non è che uno fra gli innumerevoli modelli da ripensare, reinventare, immaginare in maniera radicalmente diversa. Questo passaggio in cui ci troviamo è rischioso, ne va della nostra specie e non è garantito alcun risultato. Dal punto di vista personale posso dire di aver avuto un padre tutt’altro che autoritario. Ma come figlio unico, e maschio, gli riconosco, e nel libro cerco di celebrarla, una grande autorità sostanziale, fatta del suo modo di stare al mondo e di affrontare la vita. Non era un padre-padrone, non era nemmeno, al contrario, un amicone. Era un padre. E, in particolare, per mia fortuna, il mio”.