Libri & Editori
Le donne? Sono “Libere di scegliere se e come avere figli”
Il libro della giornalista Ilaria Maria Dondi edito da Einaudi indaga la libertà di scelta sul tema della maternità
Si intitola Libere di scegliere se e come avere figli il libro di Ilaria Maria Dondi, Direttrice di Roba da Donne, che tratta il tema della maternità. Una boccata d’aria fresca in grado di squarciare il velo dell’ipocrisia e mettere a nudo la continua pressione sociale a cui le donne sono sottoposte, nonché il venire ancora oggi definite/giudicate sulla base dell’essere o meno madri.
Lo si dovrebbe leggere nelle scuole questo libro forte, coraggioso e dichiaratamente femminista che Ilaria Maria Dondi, giornalista alla guida della nota testata Roba da Donne, ha dato alle stampe di recente con la casa editrice Einaudi. Libere di scegliere se e come avere figli svela quanto le donne siano ancora oggi immerse in un mondo che sin da bambine le cresce per diventare un giorno mogli, e poi madri. Ma se a qualcuna questo “destino” già previsto non andasse bene? Beh, allora – nonostante le tante belle parole di libertà che si spendono a proposito della maternità – deve essere ben consapevole di quanto netto e tagliente sarà lo stigma sociale a cui andrà incontro. Ilaria lo scrive senza mezzi termini: «In mancanza di maternità – biologica o, almeno, collaterale – ogni donna, che ricopra o no ruoli pubblici, è chiamata a giustificarsi di continuo. Possiamo far finta di non accorgercene, ma c’è un’età in cui ogni persona che si presume abbia un apparato genitale femminile smette di essere donna o, se preferiamo, femmina (…) e diventa o donna con figli o donna senza figli. Nel primo caso una perifrasi che aggiunge e porta il bilancio in positivo (…), nel secondo una privazione. (…) La donna diventa prodotto non conforme, anomalia: percentuale di scarto più o meno fisiologica nella linea produttiva».
Ecco dunque nero su bianco perché è così importante leggere questo accurato e “rivoluzionario” saggio sulla maternità: in primo luogo per prendere coscienza di quanta discriminazione aspetti al varco le donne senza figli; una discriminazione di cui, a differenza di altre legate a genere, razza, orientamento sessuale, religione ecc, non si parla mai, come se non esistesse. In secondo luogo perché solamente avendo la piena consapevolezza di quanto e come i nostri desideri in tema di maternità vengano manipolati sin dall’infanzia dal contesto in cui viviamo, saremmo un giorno davvero libere di fare una scelta, certe che quella decisione sia effettivamente nostra e non della società di cui siamo parte. Ci sono, tuttavia, altri buoni motivi per leggere – e far leggere il più possibile – questo volume, riguardanti anche il modo in cui si fanno figli. Ilaria Maria Dondi ci apre infatti gli occhi su quanta ipocrisia regni attorno al tema della maternità: non basta essere madri per venire accettate, poiché non tutte sono ritenute idonee per esserlo (basti pensare alle persone con disabilità, alle donne “troppo” giovani o “troppo” anziane, alle single, alle persone transgender e omosessuali); inoltre, una volta raggiunto il traguardo, si entra senza accorgersene dentro un’ulteriore gabbia di pregiudizi e doveri, invisibile eppure ancora estremamente stringente. C’è a tale proposito nel libro un intero capitolo dal titolo Identikit delle cattive e delle mostruose, in cui si raccontano le situazioni di coloro che non hanno desiderato avere figli pur potendoli avere, oppure hanno deciso di abortire senza pentirsene, o ancora hanno dato in affidamento il neonato subito dopo il parto; ci sono poi le madri mostruose, ovvero chi – per i motivi più disparati e niente affatto semplificabili – non è stata in grado di essere una madre modello, fino talvolta a mettere in discussione la scelta stessa di aver messo al mondo un figlio.
Temi scomodi di cui nessuno parla mai, per coprire il fatto che quasi sempre quando una donna arriva a compiere un infanticidio o un suicidio, quell’evento nefasto si sarebbe potuto evitare attraverso un maggiore ascolto, comprensione, una rete di persone in grado di sostenerla e aiutarla, il prendersi cura invece del giudicare. In una società in cui nessuna madre si sente libera di poter esprimere il proprio malessere, la propria depressione, nonché le difficoltà che sta incontrando nel crescere un figlio, pena l’essere additata come una cattiva madre, l’epilogo non può che essere tragico, anche laddove potrebbe non esserlo. «Gli studi di Resnick hanno rilevato che le donne che commettono figlicidi sono nella maggior parte dei casi persone in disagio economico e/o sociale, in assenza di reti famigliari e amicali o in contesti in cui quelle reti sono presenti ma non in grado di supportare la donna o riconoscere segnali evidenti di sofferenza psichica, sottovalutati quando non sminuiti e delegittimati».
Dunque si tratta in prima istanza di demolire quel luogo comune oggi tanto amato e abusato secondo il quale si può tranquillamente essere madri e anche mogli, professioniste, amiche, donne nella propria interezza, senza dover rinunciare a niente. La madre wonder woman è ormai diventata lo standard a cui adeguarsi; peccato che non per tutte sia così facile interpretare un ruolo tanto impegnativo. «Se dici con convinzione di non volere un figlio per questo motivo è perché, anche se qualcuno ti spiega con un po’ di supponenza che potrai ancora lavorare e coltivare le tue passioni, tu sai che non è quasi mai vero, o non del tutto. Dipende. Dal supporto dei nonni, da dove vivi, dalla classe sociale di appartenenza, dal posto di lavoro. E ancora: dalla salute tua o da quella dell’eventuale prole, dalle energie che non sono uguali per tutte; come non lo è la resistenza emotiva, fisica, mentale necessaria a sostenere la maratona della madre che non vuole rinunciare a (quasi) nulla e arranca dietro alla bugia che si può tutto, sempre e comunque».
Ed eccola qua, la grande bugia del nostro secolo, nelle parole di Ilaria e in quelle di tanti altri psicologi o sociologi, nonché economisti, che hanno osato sfidare il credo odierno: quello del se vuoi, puoi. Figlio della società capitalista e dunque estremamente competitiva in cui – ahimé – viviamo, il pensiero che l’uomo (o la donna) possa controllare quasi tutto nel corso della propria esistenza maschera la più grande paura del nostro tempo: riconoscere la fragilità, distruggere il potere de La società senza dolore – per dirla con il titolo di un altro utilissimo libro scritto dal filosofo Byung-chul Han – e rendersi improvvisamente conto di quanto piccoli, limitati e in balia degli eventi restiamo, nonostante l’immensa bolla di onnipotenza che ci siamo costruiti per scacciare la morte, la sofferenza, l’ignoto dalle nostre vite. Allora non si può che partire da una delle parole chiave del saggio della Dondi: la consapevolezza. Intesa come sapere a che cosa si va incontro nel diventare madri, essere al corrente dell’esistenza di un’alternativa (seppure a caro prezzo) e soprattutto riconoscere che ognuna di noi ha «introiettato fin da bambina l’idea che ci fossero nella vita delle tappe obbligate con scadenze precise». Aggiunge ancora Ilaria, parlando di sé in prima persona: «Per molto tempo ho scambiato le aspettative altrui per desideri miei, incapace com’ero – e a volte ancora sono – di ascoltare la me desiderante e, anzi, ben impegnata a reprimerla per impedirle di deludere persone care».
Ben lungi dall’aver raggiunto una consapevolezza avanzata di sé, dall’aver sviluppato un reale pensiero critico e dal possedere quella libertà di cui tanto andiamo fiere, noi donne – ma direi più in generale noi esseri umani – del XXI secolo ci ritroviamo schiacciati da una società in cui la pressione esterna non è mai stata né così forte, né così subdola. Se, infatti, un tempo si trattava di discorsi che avvenivano di persona, tra conoscenti, parenti e amici, oggi la “manipolazione delle masse” è l’inevitabile risultato del nuovo fenomeno dei media e dei social media: mai come ora la comunicazione è stata così influente. Come ben si evince dal saggio Social. L’industria delle relazioni di Gabriella Taddeo (Einaudi, 2024), i social network, specie nelle giovani generazioni, veicolano messaggi in ogni istante della nostra quotidianità, ponendoci di fronte agli occhi modelli di donne perfette, in forma, sempre sorridenti, magre e smaglianti che prendiamo per vere. Senza neppure rendercene conto, rincorriamo l’idea di qualcosa che non esiste, ma è piuttosto il frutto di sofisticati software e, d’ora in avanti, dell’intelligenza artificiale; modelli a cui ispiriamo cadendo nella trappola del capitalismo che ci vuole sempre più performanti, competitivi, efficienti, produttivi e soprattutto consumatori. Sono interessanti, a tal proposito, i paragrafi che la Dondi dedica a quello che chiama il marketing capitalista della fertilità, che ha trasformato persino il desiderio di essere madre in un business.
Ci sarebbe molto altro da dire in merito a questo saggio che, lo ripeto ancora una volta, andrebbe letto di madre in figlia, dagli insegnanti nelle classi, di donna in donna; si affrontano, ad esempio, gli interessanti aspetti della fertilità e di tutto ciò che implica essere sterile oggi; delle ideologie – anche femministe – che spesso non aiutano la tolleranza tendendo a dividere; del matrimonio, dell’adozione, dei privilegi che le madri possiedono rispetto alle non madri (affermazione alquanto controcorrente, se si considera che siamo bombardate dalla narrazione dei diritti negati alle madri e dei continui incentivi per mettere al mondo figli, in un’ottica più economica che umana e sociale). Ci soffermiamo però qui sulla conclusione a cui la giornalista giunge nelle pagine finali del libro, a mio avviso uno dei messaggi più belli e significativi dell’intero saggio (ce ne sono molti altri, a dire il vero). Il punto centrale è la sospensione del giudizio e la rottura delle categorizzazioni, che pongono le donne le une contro le altre e non fanno bene né alle madri né alle non madri. Al contrario, per superare questo impasse e trovare un punto di svolta, la soluzione non è nel dividersi, bensì nell’unirsi. Ed è proprio con le parole di Ilaria su questo aspetto – a sua volta tratte in parte dal discorso di Virginia Woolf alle studentesse di Cambridge nel lontano 1928 – che chiudiamo la recensione di Libere di scegliere se e come avere figli (Einaudi editore). Il resto dovrete farlo voi, leggendolo per intero e cominciando a diffondere un pensiero nuovo, basato sull’inclusione invece che sull’esclusione e sul pregiudizio acquisito.
«Non c’è nessuna partita e nessun torneo, «tutto questo opporre un sesso all’altro, una qualità all’altra; tutto questo attribuire superiorità a sé stessi e inferiorità agli altri, appartiene a quella fase scolastica dell’esistenza umana in cui ancora esistono “squadre”, e sembra necessario che una squadra riesca a vincere l’altra». Non è necessario, se non a chi vuole metterci le une contro le altre: da una parte le madri, dall’altra le non madri, come se esistesse una linea netta e uguale per tutte tra l’essere una cosa o l’altra. Divide et impera, è il gioco inventato da altri per tenerci in scacco e farci a pezzi, sempre più piccoli, pezzi singoli dei nostri singoli corpi: perché altrimenti come la domini una maggioranza, o comunque una non minoranza, se resta compatta? A questo gioco, non giochiamoci più».