Gianni Minà e quelle facce piene di pugni, l'ultima chiacchierata con il giornalista

L'ultima intervista a Gianni Minà tratta da libro di Virginia Perini e Federica Guglielmini "A corta distanza"

Gianni Minà
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L'ultima intervista a Gianni Minà tratta dal libro "A corta distanza"

Gianni Minà nel 1985 portò in tv un programma cult, quel "Facce piene di pugni" che fu un successo straordinario. La sua passione per la boxe non è mai stata un mistero e proprio di questo parla in una delle sue più recenti interviste, pubblicata nel libro di Virginia Perini e Federica Guglielmini A corta distanza, una raccolta di interviste ai protagonisti del mondo del pugilato italiano. Ecco l'intervento integrale del giornalista.

Milano, la voce della boxe raccontata "A corta distanza"

All’inizio di Storia di un boxeur latino (Minimum fax), il suo libro di racconti e ricordi, alcuni dei quali si possono dire a onor del vero leggendari, Gianni Minà racconta di una serata d’estate, una particolare serata d’estate, a Roma, nel cuore di Trastevere, da cui pare essere stata ispirata poi l’intera narrazione.  

Era il 1982. In quell’occasione il giornalista si ritrovò a cenare insieme a una compagnia del tutto particolare. Cuore di questa inusuale reunion di cui è testimone una fotografia che apre le danze ai racconti è la leggenda del pugilato Cassius Clay che, dopo essere stato con Minà alla puntata della trasmissione di Rai2, Blitz, voleva incontrare niente di meno che Papa Giovanni Paolo II per confrontarsi con lui su temi di fede. Ma non è tutto. Quella sera non rimasero soli.

Alla coppia che si apprestava a sedere ai tavoli di Checco er Carrettiere si aggiunsero in maniera del tutto casuale, dopo un giro di telefonate improvvisato, Robert De Niro, Sergio Leone con la moglie Carla e addirittura Gabriel Garcìa Marquéz con la moglie Mercedes. Un sogno per i comuni mortali che si trovavano per caso nei tavoli vicini ma anche per chi si accinge a leggerne il racconto. 

Un uomo, un pugile o forse dovremmo dire “il pugile” che con la stessa forza con cui Giove attira i suoi satelliti, riusciva a chiamare a sé personaggi così vari e per differenti motivi “innamorati” di lui, arrivando fino al Papa.

Un “incontro” fuori dal comune

In quei giorni il pugile si trovava a Roma per impegni “giornalistici” e grazie a Gianni Minà che aveva contatti con il segretario particolare del Santo Padre, Stanisław Dziwisz, è stato recapitato al Papa il messaggio che Alì desiderava conoscerlo. L’incontro fu organizzato: "Giovanni Paolo II volle prima ricevere da solo Muhammad Alì - scrive Minà ne Il mio Alì (Rizzoli, 2014). Dopo venti minuti di colloquio privato, il Papa incontrò anche Veronica e tutti noi del seguito». Continua: «Fu sorprendente sentire come Karol Wojtyla conoscesse bene la storia sportiva e umana del più grande pugile dei tempi moderni: la sua idiosincrasia, per esempio, verso gli avversari più piccoli di statura come Joe Frazier (che passavano sotto i suoi colpi e lo picchiavano duro al bersaglio grosso), ma anche il suo instancabile impegno per i diritti civili delle minoranze. Alla fine il Papa regalò a Muhammad la medaglia del suo pontificato, il riconoscimento massimo per un ospite. Il campione, con la disarmante innocenza dei pugili, risposte tirando fuori dalla tasca una sua fotografia in posa e dedicandola e autografandola a Sua Santità. In un’epoca di notizie amare, di insanabili incomprensioni e di atteggiamenti arroganti, quell’incontro toccante in una mattina di maggio dell’82 è per me un ricordo di grande commozione, una lezione umana impartita da due persone che, pur con incidenza diversa nella società in cui viviamo, sono state grandi per davvero".

Ad ogni modo, venne prima l’amore per Alì e poi, di conseguenza, la passione per quello sport antico e... ma tutto molti anni prima di quella cena indimenticabile: "Cassius Clay, allora si chiamava ancora così, mi ha conquistato alle Olimpiadi di Roma del 1960, dove vinse nella categoria medio massimi ed aveva appena 18 anni. Poi tutto è stato conseguente. Negli anni difficili della sua squalifica per la scelta di rifiutare il servizio militare, la stima per lui si rafforzò soprattutto quando prese posizione precisa contro la guerra in Vietnam. Quella obiezione di coscienza gli costò alcuni giorni di prigione e quasi tre anni di lontananza dal ring – si ferma, sospira. Non conosco pugili che abbiano rischiato così, anni di esclusione, secondo la linea scelta dai Black Muslim".

E prosegue: "È il rappresentante di una minoranza oppressa che quasi sempre non si è tirato indietro se bisognava farlo. Le faccio un esempio: una volta venne a Milano, su mio invito per il Telethon che quell’anno presentavo. Era già affetto dal morbo di Parkinson che gli impediva la parola fluida. Mentre eravamo a pranzo, chiese con discrezione se esisteva una moschea in quella città per onorare il suo Dio. Fu l’unica volta che chiese aiuto, in ossequio alla sua fede. Lo feci accompagnare dal nostro traduttore, Paolo Tufano, che al suo ritorno ci raccontò, incredulo, di aver tradotto ai fedeli un sermone di Mohammad Alì che, con immensa difficoltà, aveva tenuto per quell’occasione".

Gianni Minà ha dedicato un libro intero a quello che senza girarci troppo intorno è considerato da lui non solo il più straordinario pugile della storia, ma un personaggio di carisma irraggiungibile che ha lasciato un solco indelebile nello scorso secolo con scelte quasi sempre controcorrente, da quella di mutare il nome da Cassius Clay in Muhammad Alì dopo essersi convertito all’Islam al rifiuto di combattere in Vietnam, fino al giorno in cui, già fragile e tormentato dal morbo di Parkinson, commosse il mondo intero accendendo la fiaccola olimpica ad Atlanta. Ne Il mio Alì” il giornalista ha raccolto i suoi articoli sul personaggio dal 1971 a oggi, scritti a caldo nelle notti gloriose di Las Vegas, Kinshasa, Manila oppure frutto di interviste esclusive.

"All’inizio seguivo la boxe per il Tuttosport di Torino. Frequentavo le palestre di pugilato di Roma perché Antonio Ghirelli, il mio maestro e allora direttore di quella testata, mi aveva incaricato di imparare le tecniche e i modi del pugilato in una città come Roma dove è forte la tradizione dello sport dei pugni". Antonio Ghirelli fu uno dei grandi innovatori della “narrazione sportiva”. Sul finire degli anni ‘50, chiamato a sorpresa, lui meridionale, a dirigere il Tuttosport di Torino, crebbe una vera generazione di giornalisti (Ormezzano, Tosatti, Baretti ed altri oltre a Minà) nel cui stile, il racconto, non poteva essere solo tecnico, specialistico, ma anche interessato al contesto, al sociale, al “colore”.

Inevitabilmente questa tendenza divenne l’espressione di una scuola opposta a quella di Gianni Brera, un fuoriclasse, convinto assertore, però, di teorie secondo le quali il nostro popolo, da secoli malnutrito, non potesse gareggiare alla pari con gli atleti del Nord del mondo e che quindi le languide e sentimentali cronache dello sport dei giornalisti di “scuola napoletana”, soddisfacessero solo le esigenze romantiche del lettore. "Quello che ho imparato subito ad amare del pugilato è la lealtà che quasi tutti i pugili, anche quelli più difficili, coltivano con grande orgoglio. Se un pugile è un vero pugile, non scivolerà sulla disonestà di un colpo".

La sensazione, parlando con lui, è quella di guardare un film con il tasto del fast-forward schiacciato, il film della storia di un secolo, letto e interpretato in chiave sportiva ma non solo, anche musicale, cinematografica, letteraria. Muhammad Ali, Jorge Amado, i Beatles, Fidel Castro, Adriano Celentano. E poi ancora Robert De Niro, Gabriel García Márquez, Dizzy Gillespie, Sergio Leone; poi Diego Armando Maradona, Rigoberta Menchú, Pietro Mennea, Mina, Gianni Morandi, David Alfaro Siqueiros, Tommie Smith, Massimo Troisi, Emil Zátopek. 

«Nella mia vita, è inevitabile, ho incontrato tantissime persone. Alcuni ho cercato di raccontarli nel libro che è uscito per la Minimum Fax Storia di un boxeur latino”». Poi svela un piccolo segreto: «Per il titolo ho preso in prestito una dedica che mi aveva fatto, alcuni anni fa, il mio amico Paolo Conte ad un suo concerto».

Di nome in nome prendono forma di romanzo le avventure di un ragazzo partito da un quartiere di Torino, in calzoncini corti, da una famiglia di origine siciliana, da un maestro in sedia a rotelle. «Storia di un boxeur latino non è un’autobiografia. È una dichiarazione d’amore alla vita, alla musica, allo sport e agli ideali d’altri tempi. È la storia di quando ci si batteva contro le ingiustizie perché l’ingiustizia contro cui battersi, in ogni tempo e luogo, è sempre la stessa. La storia di quando si poteva giocarsela finché si aveva fiato. E i desideri, quelli veri, erano il tema della vita».

Anno dopo anno Gianni Minà ha imparato a conoscere i pugili con i loro punti di forza o i punti deboli, le strategie o la tecnica fino a diventare un massimo esperto pur non avendo combattuto. E per l’altro suo “idolo” "dopo Mohammad Alì" tiene a precisare, la non-strategia era tutto: "Ho adorato anche Rocky Marciano, l’unico peso massimo della storia a ritirarsi imbattuto, difendendo il titolo sei volte. Quando per “La storia della boxe” lo intervistai per la Rai, parlando di tecnica, mi disse: “Io non ho strategie, mi faccio picchiare dall’avversario per quasi tutte le riprese. Poi, quando si stanca, io lo faccio fuori con due colpi. Ognuno ha il suo stile, io non ho paura del dolore fisico, lo posso sopportare. Quello psicologico, però, proprio no”».

Ma è vero che stiamo vivendo un momento di crisi per il pugilato? Con il pensiero che vola agli anni d’oro che ha potuto vivere intensamente fino a farne oggi un bagaglio di inestimabile valore, Gianni Minà risponde senza pensarci troppo: «Assolutamente, perché sono nate altre discipline che lo hanno scalzato, in più è cambiata anche la società. Il programma tv a puntate “Storia della boxe - Facce piene di pugni” nacque proprio perché già all’epoca nessuno aveva “cantato” questo sport in maniera organica. Nello scegliere i pugili da intervistare mi aiutò il mitico Roberto Fazi, ex direttore di banca e poi direttore della rivista “Boxe Ring”. Roberto era uno dei più importanti conoscitori di questa arte. Montammo circa 14 puntate, se mi ricordo. Poi la Rai stoppò la produzione perché erano scaduti i diritti televisivi dei match storici. L’Azienda dovrebbe avere ancora in magazzino le interviste dei pugili da me intervistati e mai montate. A meno che non le abbiano buttate...".

Poi un pensiero va al giornalismo come se in qualche modo ci fosse un nesso tra la crisi dell’arte del pugno e l’evoluzione di una professione che un tempo arruolava veri e propri “combattenti della parola”. "Il giornalismo si evolve; ogni epoca ha un suo stile giornalistico. Oggi questo mestiere, semplicemente, rispecchia la società in cui stiamo vivendo. Io non condannerei ma neanche mitizzerei il lavoro di redazione. Come tutte le professioni che si svolgono in gruppo ha sia i lati positivi che negativi. Tutte le redazioni in cui ho lavorato mi sono rimaste nel cuore. Gli incontri umani sono una ricchezza, anche se talvolta sviluppati tra tensioni". E la tv? "La potenza del mezzo televisivo sta nel rendere intatta l’immediatezza di una intervista, ad esempio, in tutta la sua potenza. Senza la mediazione della penna, della carta stampata".

Quello che si potrebbe chiamare, ma solo in gran sintesi, un’altra delle grandi passioni (nel senso di interesse e conoscenza) di Gianni Minà oltre il pugilato è il vasto, vastissimo mondo dell’America Latina, di cui è per certi versi narratore. Dalla famosa intervista a Fidel Castro, un documento unico non solo per il contenuto narrato ma anche per l’atmosfera intima che si venne a creare durante la “chiacchierata” alla fatidica domanda rivolta a David Alfaros Siqueiros, la leggenda della pittura murale messicana dalla cui testa non era mai stato del tutto rimosso il sospetto di aver organizzato, su ordine di Stalin, un primo tentativo di omicidio di Trotsky (la risposta fu no, che non l’aveva ucciso).

Ma tra tutte queste esperienze “vince” «l’aver conosciuto Rigoberta Menchù Premio Nobel per la pace nel 1992 e averla accompagnata nella visita ai campi profughi della sua gente, tra il Guatemala e il Messico; o aver incontrato il sub comandante Marcos, che intervistai con Manuel Vazques Montalban. Poi certo aver conosciuto Fidel Castro. Alla fine di una intervista che ci impegnò per sedici ore, dalle due del pomeriggio di domenica 28 giugno 1987 alle cinque del mattino del lunedì seguente, Fidel Castro paragonò il lavoro da noi svolto a quello di due operai dell’informazione e concluse con ironia: “Non so se questo è un record mondiale, ma sedici ore filate di dialogo con un giornalista televisivo, per quanto mi riguarda, rappresentano un primato almeno dei Caraibi”».

Ci sono poi, soprattutto, motivi personali a legarlo a quelle terre oltreoceano: "Mia figlia Marianna vive a Città del Messico da quando era piccola". E, in effetti, c’è qualcosa di ancestrale che lega quella infinitamente fascinosa terra del sud all’arte della lotta sul ring. 

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