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Gianluca Delfino: “Le aziende non indietreggino sullo smart working”

Di Ernesto Vergani

"Il fenomeno va studiano nella prospettiva sia dei lavoratori che delle aziende"

Meta e Google stanno richiamando i propri dipendenti in sede

Terminata l’emergenza Covid, nel privato dallo scorso 1° aprile è venuto meno qualsiasi criterio di priorità nell’accesso al lavoro agile, il cui svolgimento può ora essere negato o concesso dal datore di lavoro in funzione delle proprie esigenze, mentre nella PA sono possibili accordi individuali per tutelare i fragili.  È fondamentale approfondire nel dettaglio limiti e potenzialità dello smart working, studiarne i presupposti culturali e modalità e sistemi di applicazione flessibile. Ne parliamo in questa intervista con Gianluca Delfino, Assistant Professor in Management Accounting presso l’Università di Stoccolma, secondo cui il rischio è che le aziende facciano un passo indietro nel ricorrere ad esso, rinunciando a uno strumento innovativo e vantaggioso sia per i dipendenti che le aziende.

Gianluca Delfino, quale la fotografia del ricorso allo smart working?

Il Covid-19 e il periodo di quarantena che l'Italia ha vissuto nel 2020 hanno introdotto un modello organizzativo precedentemente quasi sconosciuto nel mondo aziendale italiano: quello dello smart working. In Europa, fino al 2018, solo il 5,4% dei dipendenti lavorava regolarmente a distanza, una percentuale rimasta abbastanza costante dal 2009. Nel 2020, il 40% dei dipendenti era stato in smart working (fonte: Politecnico di Milano). Se, da un lato, questi dati possono essere considerati "normali" date le condizioni che i lavoratori hanno vissuto in quegli anni, quello che questi dati non raccontano è lo stato psicologico delle persone che hanno vissuto un brusco cambiamento nella maniera di lavorare. Lo smart working ha portato, infatti, alcuni manager a utilizzare gli strumenti digitali di controllo (come Microsoft Teams) in maniera sconsiderata e in una forma tale da entrare aggressivamente nelle vite private dei lavoratori.

Che lavoro sta conducendo?

Uno studio su larga scala dello smart working, avendo ampliato il campione di imprese analizzate, e molte delle dinamiche precedentemente osservate sembrano manifestarsi di rado. Per chi lavora da remoto, gli strumenti di controllo a distanza sono oggi percepiti come più normali, principalmente per due motivi. Il primo è cambiamento generazionale: le persone che occupavano posizioni di middle management durante il Covid oggi ricoprono ruoli più influenti nella gerarchia aziendale. Questo cambio generazionale ha favorito un miglior “utilizzo” del modello di lavoro remoto. La seconda ragione è la minore sfiducia nei confronti dei lavoratori: c'è maggiore fiducia che chi lavora da casa sia effettivamente produttivo.

Quante aziende utilizzano lo smart working oggi?

Se da un lato, oggi, lo smart working è considerato un modello organizzativo del lavoro più accettato da alcune imprese, i dati purtroppo ci raccontano che sono poche le aziende che utilizzano questa forma organizzativa. Nello specifico, solo circa il 15% dei lavoratori italiani usufruisce di una forma ibrida o totale di smart working (3,65 milioni di persone su un totale di circa 23,7 milioni di lavoratori). Nel corso del 2023, i lavoratori in smart working sono maggiormente presenti nelle grandi imprese, nel comparto sono oltre un lavoratore su due, pari a 1,88 milioni di persone; sono aumentati lievemente anche nelle PMI, con 570 mila lavoratori, il 10% della platea potenziale; sono invece ancora calati nelle microimprese (620 mila lavoratori, il 9% del totale) e nelle pubbliche amministrazioni (515.000 addetti, il 16%). Questi dati, dunque, ci raccontano che sono ancora pochi i lavoratori ai quali è fornito un contratto smart working e che molte aziende sono restie dall’applicarlo.

Cosa spiega questo passo indietro? L’impressione è che si parli poco di smart working.

È importante fare una distinzione tra i vari modelli di organizzazione del lavoro. Infatti, anche se comunemente si usa il termine “smart working” per descrivere il lavoro da remoto, a prescindere dalla posizione fisica del lavoratore e dalle ore effettivamente lavorate, la maggior parte dei contratti proposti riguardano forme di “telelavoro” (home office) o “lavoro ibrido” (hybrid work) piuttosto che lo smart working “puro”, come definito nella letteratura accademica.

Quali le differenze?

Il telelavoro o lavoro da casa (home office) è, come intuibile, descrive il lavoro svolto da casa, mantenendo le ore di lavoro standard e una struttura simile a quella di un ambiente di ufficio tradizionale. Il lavoro ibrido (hybrid work) è il modello in cui i lavoratori si alternano tra lavoro in ufficio e lavoro a distanza. Questa modalità permette un mix di interazione faccia a faccia e la flessibilità del lavoro da remoto. Il lavoro remoto (remote work) include la possibilità di lavorare da qualsiasi luogo al di fuori dell'ufficio tradizionale, non limitandosi alla casa. Questo termine è diventato molto popolare, soprattutto dopo l'impennata del lavoro a distanza durante la pandemia di Covid-19. I termini smart working o lavoro agile (agile working) sono spesso usati per descrivere un approccio più flessibile al lavoro che non si limita solo al luogo in cui viene svolto, ma include anche flessibilità negli orari e un'organizzazione del lavoro per obiettivi.

Questo ultimo approccio sembra più incentrato sui risultati piuttosto che sulle ore lavorate.

Esattamente. È una distinzione fondamentale, considero il "telelavoro", o una sua forma ibrida, solo un primo passo verso una vera flessibilità lavorativa. Il vero avanzamento verso il futuro del lavoro implica l'adozione di formule lavorative che consentano di operare da qualsiasi parte del mondo, rispettando i doveri e le aspettative che l'azienda ha nei confronti del lavoratore. Al momento, questo "passo in avanti" sembra più un miraggio che una concreta possibilità.

Perché lo smart working, inteso in senso lato, è stato abbandonato o limitato da molte aziende?

È importante partire da un presupposto fondamentale: il tema dello smart working è prima di tutto culturale. Infatti, se le persone nel top management non apprezzano i valori dietro a questo modello organizzativo, né considerano i vantaggi e i benefici per le persone, l'azienda e l'ambiente, allora questi non lo considerano nemmeno come una possibilità. Parlando con i lavoratori, questo aspetto è evidente. Molti associano la chiusura nei confronti dello smart working a una "mentalità vecchia" e accusano le persone al comando delle aziende di rifiutarsi di aprire a un modello lavorativo che, dati alla mano, non sembra avere alcun impatto negativo né sulla produttività aziendale né sui dati contabili-finanziari.

Come valuta l’approccio del top management?

Dal punto di vista del top management, sembra esserci una certa confusione riguardo ai vantaggi e agli svantaggi dello smart working. Se, da un lato, i dirigenti riconoscono che una maggiore flessibilità può migliorare la qualità della vita privata e lavorativa dei dipendenti, dall'altro temono che lavorare a distanza possa diminuire il senso di appartenenza aziendale e la connessione tra colleghi della stessa funzione. Inoltre, una delle preoccupazioni più comuni è che alcuni possano sfruttare questa flessibilità, mettendo le proprie esigenze personali davanti alla qualità del loro lavoro.

Anche i grandi baluardi del lavoro flessibile come Meta e Google stanno facendo un passo indietro.

È vero. Questi giganti stanno richiamando i lavoratori in ufficio perché ritengono che trascorrere più tempo in sede sia fondamentale per sentirsi connessi sul lavoro. Per esempio, un memo di Meta sottolinea la connessione come una delle ragioni principali per cui l'azienda sta obbligando il suo personale a tornare in ufficio, con il ceo Mark Zuckerberg che afferma che il tempo passato insieme fisicamente è fondamentale per la connessione tra team. L'ironia, o la contraddizione di questa narrativa, risiede nel fatto che queste aziende sono le stesse che sviluppano gli strumenti che garantiscono la flessibilità dalla quale ora sembrano volersi distanziare.

Queste teorie sono in linea con ciò che i loro lavoratori vogliono?

La maggior parte dei dipendenti in modalità ibrida preferirebbe trascorrere ancora più tempo lavorando da casa rispetto a quanto fanno ora. Alcuni, invece, vorrebbero semplicemente un bilanciamento tra vita lavorativa in ufficio e vita lavorativa da remoto, permettendo di ottimizzare vari aspetti della loro vita. Questo pone quindi la domanda su cosa credano veramente i top manager delle aziende. Credo che sia compito dei ricercatori fornire ai top manager le risposte alle difficili domande riguardanti le sfide e i vantaggi di questa modalità di lavoro.

Qual è il suo paradigma da ricercatore?

Ho fatto mio l’obiettivo di studiare il fenomeno dello smart working da entrambe le prospettive: quella aziendale e quella del lavoratore. Comprendere le motivazioni di entrambe le parti è fondamentale per costruire un quadro completo della situazione. Personalmente, la mia maggiore preoccupazione è che molte aziende possano fare un passo indietro rispetto allo smart working, eliminando un elemento di flessibilità che considero non solo positivo, ma anche un diritto del dipendente. È chiaro che ci sono settori in cui lo smart working non è applicabile, come quelli manifatturieri, ad esempio. Tuttavia, nei settori in cui il contributo del lavoratore non richiede necessariamente la sua presenza fisica in ufficio, obbligare la persona a recarsi in ufficio cinque giorni su cinque, oggi, con le tecnologie disponibili, può causare disagi significativi e suscitare reazioni emotive intense, come frustrazione e desiderio di cambiare lavoro. Il piatto della bilancia pende sicuramente a sfavore del benessere del lavoratore.

Tuttavia, quasi tutte le aziende nel settore della consulenza, in questo senso, offrono lo smart working o una modalità ibrida.

Nel mio studio, sto osservando come, in alcuni contesti, sembra purtroppo emergere l'ombra di un regresso. È importante illuminare questo fenomeno, parlarne, stimolare dibattiti e confronti che possano portare lavoratori e dirigenti a trovare un punto d’accordo in cui le esigenze di tutti siano ascoltate e rispettate. È fondamentale che le aziende, in particolare i dipartimenti delle risorse umane, riflettano su formule di smart working applicabili nel loro contesto aziendale e adattabili sia alle esigenze dei lavoratori che a quelle aziendali. Spetta a loro il compito di mediare tra questi due gruppi e di agire come arbitri in una sfida complessa: quella di riconoscere lo smart working non solo come un diritto, ma anche come una responsabilità del lavoratore. È essenziale scoraggiare comportamenti scorretti e incoraggiare un utilizzo dello smart working che risulti vantaggioso non solo per il dipendente, ma anche per l'azienda nel suo insieme.

Quanto conta il benessere dei dipendenti?

Un dipendente felice è un dipendente motivato. Un’azienda che opera con dipendenti motivati è un’azienda che ha tutte le basi per performare al di sopra delle aspettative.