Lo sguardo libero

La serie A di calcio in crisi? Sì al capitale di rischio, no ai ristori

Ernesto Vergani

Un’azienda deve generare redditività in modo sostenibile. Gestirla è una responsabilità verso tutti gli stakeholders, Stato incluso

Quella del capitale di rischio è una delle questioni irrisolte dell’industria italiana degli ultimi decenni. La pandemia ha peggiorato la situazione. Molte aziende hanno problemi di capitale e, se non trovano soluzioni, sono costrette a indebitarsi. Non possono così investire in innovazione e produttività. Si indeboliscono e non sono in grado di competere a livello globale. Rischiano di essere acquisite da organizzazioni straniere e di dover trasferirsi spostando la produzione o il domicilio fiscale fuori dall’Italia. Ed è per questo che alcuni economisti giustamente auspicano di destinare parte delle risorse del Next Generation EU alle aziende indebitate, magari creando un fondo pubblico-privato.

Ben venga quindi - e sia anche da esempio e stimolo per imprenditori di altri settori – la decisione della Lega di seria A di calcio di cedere per 1,7 miliardi il 10% della media company, che sarà creata per commercializzare i diritti televisivi, al consorzio di fondi di private equity Cvc-Advent-Fsi. Dice bene il CEO della Lega di serie A Luigi De Siervo: “Un passo fondamentale sulla via della trasformazione del calcio in un’industria”.

Dall’altra parte, per far fronte ai debiti e ai problema di liquidità, peggiorati dall’emergenza sanitaria, la stessa Lega chiede ristori al Governo. Il calcio vuole soldi dallo Stato. Come le aziende di altri settori per la cassa integrazione, i ristoratori, gli albergatori, i tassisti e via dicendo. Nell’ultima stagione, le perdite aggregate delle 20 società di A sono state di 770 milioni. Entro il primo dicembre vanno saldati circa 300 milioni di stipendi, che nella prima serie sfondano 1,3 miliardi l’anno. I conti non tornano. L’ingaggio medio netto in A è di 1,2 milioni. Non è solo una questione di proporzioni tra quanto guadagna Cristiano Ronaldo (31 milioni netti l’anno) e il comune lavoratore italiano (20.000 euro).

Certo, dispiace per il magazziniere della squadra di calcio che sarà coinvolto. Certo, il problema del tetto degli ingaggi va risolto a livello di UEFA. Tuttavia, come si insegna in tutte le facoltà di Economia, un’azienda deve generare redditività, investendo e anche rischiando (per esempio col capitale di rischio appunto), ma in modo sostenibile. Gestire un'impresa è una responsabilità verso tutti gli stakeholders: dipendenti, fornitori, clienti… Stato incluso. Un’azienda non può indebitarsi all’infinito. Per giunta, in attesa dei fondi di Next Generation EU, fino a prova contraria oggi i ristori sono i soldi dei contribuenti italiani (di quelli che pagano le tasse, non di tutti) e debito che graverà sui nostri figli e nipoti.