Costume

Henry Moore: al Museo Novecento disegni, grafiche, sculture del grande artista

ANDREA CIANFERONI

A quasi cinquant’anni (era il 1972) dalla memorabile mostra al Forte di Belvedere, il Museo Novecento di Firenze rende omaggio al grande artista inglese

Museo Novecento Firenze decide di rendere omaggio al grande artista inglese con la mostra “Henry Moore. Il disegno dello scultore”, curata da Sebastiano Barassi, Head of Henry Moore Collections and Exhibitions e Sergio Risaliti, Direttore artistico del Museo Novecento.

Organizzata in collaborazione con la Henry Moore Foundation, la mostra (sino al 18 luglio 2021) è realizzata con il contributo di Banca Monte dei Paschi di Siena, vedrà il museo fiorentino ospitare una corposa selezione di disegni, circa settanta, assieme a grafiche e sculture. Parallelamente, come evento collaterale dell’esposizione Henry Moore. Il disegno dello scultore, Museo Novecento ospita sino al 30 maggio 2021 nelle sale al secondo piano, la mostra Henry Moore in Toscana, realizzata con il contributo di Banca Monte dei Paschi di Siena, Leo France S.r.l., Faggi Enrica S.p.a., Carlo e Rosella Nesi.

A quasi cinquant’anni (era il 1972) dalla memorabile mostra al Forte di Belvedere che vide protagonista il maestro della scultura inglese, il Museo Novecento decide di rendere omaggio al grande artista inglese Henry Moore con la mostra dal titolo “Henry Moore. Il disegno dello scultore”, curata da Sebastiano Barassi, Head of Henry Moore Collections and Exhibitions e Sergio Risaliti, Direttore artistico del Museo Novecento. La mostra, organizzata in collaborazione con la Henry Moore Foundation, con il contributo di Banca Monte dei Paschi di Siena, sino al 18 luglio 2021 vedrà il museo fiorentino ospitare una corposa selezione di disegni, circa settanta, assieme a grafiche e sculture. 

Con “Henry Moore. Il disegno dello scultore” il Museo Novecento si posiziona a livello internazionale e lo fa con una mostra preparata negli ultimi due anni dal direttore dell’istituzione fiorentina in collaborazione con la direzione scientifica della Fondazione Moore. Le forme naturali – rocce, ciottoli, radici e tronchi –, gli animali, ma anche i teschi e poi la relazione tra il creatore e la materia, esemplificata anche dai disegni che ritraggono le mani dell’artista o l’artista al lavoro nel paesaggio, divengono il fulcro della mostra. Traendo spunto da una rilettura di alcuni temi centrali nella produzione di Moore, l’esposizione intende proporre un approfondimento sul valore del disegno nella sua pratica e sulla sua relazione con la scultura.

Secondo Moore infatti: “L’osservazione della natura è decisiva nella vita dell’artista. Grazie a essa anche lo scultore arricchisce la propria conoscenza della forma, trova nutrimento per la propria ispirazione e mantiene la freschezza di visione, evitando di cristallizzarsi nella ripetizione di formule”.  

Nella sala al piano terra, la presenza eccezionale di un cranio di elefante proveniente dallo studio dell'artista, su cui Moore si è applicato costantemente anche per realizzare una serie di incisioni, sottolinea l’analisi delle forme da punti di vista variati e con soluzioni formali molteplici, nate forse sull'esempio di un'identica performance grafica di Picasso, quasi ossessionato dalla possibilità decostruttiva della figura di un toro.

Con “Henry Moore. Il disegno dello scultore” si accende quindi un faro sulla produzione grafica di questo protagonista della scultura contemporanea, che nel corso della sua intensa attività ha avuto modo di confrontarsi non solo con la scultura primitivista ed extraeuropea e con le sperimentazioni formali e linguistiche delle avanguardie storiche – su tutte, le esperienze di Brancusi e Picasso –, ma anche con la tradizione della grande arte italiana dei secoli precedenti, in particolare con quella dei maestri attivi a Firenze e in Toscana, i grandi artefici dell’umanesimo in arte.

La mostra, significativa per presenza di opere e per il carattere inedito della scelta, rinsalda pertanto il legame di Moore con il territorio, che tuttora ospita opere monumentali dell’artista e che ha accolto, oltre all’importante esposizione del 1972, una mostra nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio nel 1987. Va ricordato poi che Firenze ha rappresentato un momento saliente e forse cruciale nella formazione del genio artistico di Moore, giunto in città per la prima volta nel 1925, durante il suo primo viaggio di studio in Italia, realizzato grazie ad una borsa di studio messa a disposizione dalla Royal College of Art. Fu quella l’occasione per ammirare e osservare le creazioni dei grandi maestri del passato, tra cui Giotto, Donatello, Masaccio e Michelangelo.

A partire da un’indagine sul rapporto di Henry Moore con il dato naturale e con i principi di ritmo e forma ad esso sottesi, verrà costruita una narrazione che muove dalla relazione tra l’immagine dell’artista e il paesaggio roccioso, per poi svilupparsi intorno allo studio della natura e delle vicendevoli mutazioni tra elemento naturale e figura umana, fino ad arrivare alla rappresentazione della forma primordiale. L’attenzione per la forza strutturale che soggiace alle diverse conformazioni naturali, unita all’osservazione dell’anatomia umana e dello spazio circostante, costituisce il fondamento di una ricognizione su alcuni motivi iconografici ricorrenti nella produzione grafica di Moore. Tra questi, si distinguono i paesaggi, le rocce, gli alberi, gli animali, i monoliti, le mani dell’artista. 

La scelta dei temi è dettata dalla volontà di “scavare’ in una zona del lavoro di Henry Moore finora poco indagata e meno nota al grande pubblico italiano, la cui conoscenza è legata soprattutto alle sculture che rappresentano figure sdraiate e ai disegni della Seconda Guerra Mondiale. Collegati da una comune ricerca sulla struttura e sulla forma, i soggetti individuati consentono di rileggere la produzione di Moore rivelando importanti richiami alla tradizione anglosassone, tra pittura romantica di paesaggio (il riferimento è, in particolare, ai disegni dedicati agli eventi atmosferici, a Turner ad esempio) e osservazione più prettamente scientifica (si pensi ai disegni dedicati agli animali tipici di una certa cultura anglosassone). Il motivo delle mani permette infine di approfondire un altro tema caro all’artista. Per Moore, infatti, esse non costituiscono solamente uno strumento indispensabile dell’attività artistica, ma sono a loro volta un soggetto che consente di veicolare un ampio spettro di emozioni, sensazioni, sentimenti. Al motivo della mano viene inoltre ricondotta l’origine della creazione e della costruzione della forma nello spazio.  Le mani come veicolo della connessione profonda, oltre lo sguardo, tra l’oggetto naturale e la coscienza interiore di esso. Secondo lo scultore, infatti: “La percezione della forma è per lo scultore una sensazione interiore: ogni forma, infatti, indipendentemente dalle sue dimensioni e dalla sua complessità, viene da lui percepita come se fosse contenuta nell’incavo della sua mano, e visualizzata mentalmente nella molteplicità dei suoi aspetti”. 

Era tempo ormai che la città di Firenze, culla dell’umanesimo in arte tornasse a rendere omaggio a Henry Moore, lo scultore moderno che più di ogni altro ha saputo interpretare e sviluppare la lezione dei grandi maestri del Rinascimento, dando vita a un’esperienza nuova, diversa anche se consequenziale per molti aspetti a quella di Masaccio e Donatello, di Brunelleschi e Michelangelo. “Un’arte che oggi è ancora più che mai esemplare in quanto al di là di argomentare sul suo astrattismo o meno si avverte sempre la presenza dell’uomo, nel suo rapporto con la storia e la natura, con i suoi tormenti e le sue inquietudini, con i suoi conflitti e le sue riconciliazioni”, ha dichiarato il direttore del Museo Novecento.

Un nuovo umanesimo in arte di cui Moore era consapevole: “Disapprovo l’idea secondo cui l’arte contemporanea sarebbe un atto di fuga dalla realtà. Il fatto che l’opera d’arte non abbia come scopo la riproduzione fedele delle sembianze della natura non è motivo sufficiente per ritenere che essa sia uno strumento di evasione dal mondo e dalla vita: al contrario, è proprio attraverso l’arte che è possibile addentrarsi ancor più profondamente nella vita stessa. L’arte non è un sedativo o una droga, né un semplice esercizio di buon gusto, e neppure un abbellimento della realtà con piacevoli combinazioni di forme e di colori; è invece una espressione del significato della vita e un’esortazione a impegnarvisi con sforzi ancora maggiori”. Sono parole di Moore, che valgono come viatico a questa mostra e forse anche a chi voglia ancora trovare nell’arte uno strumento per migliorare il proprio rapporto con la realtà, gli altri e la natura che ci circonda, sulla Terra e nel cosmo. 

Essere giunti dopo due anni d impegnativa ricerca a creare una collaborazione scientifica con la prestigiosa Henry Moore Foundation per riportare a Firenze le opere del maestro, circa cinquant’anni dopo la mostra epocale al Forte di Belvedere, è motivo di vanto e di immensa soddisfazione – ha detto Sergio Risaliti, direttore artistico del Museo Novecento e curatore della mostra con Sebastiano Barassi -. Henry Moore. Il Disegno dello scultore”, vuole essere un dono alla città che ha sofferto una crisi pandemica drammatica e che sta uscendo a fatica ma con coraggio e orgoglio da questa situazione così difficile. La presenza in questo momento storico delle opere di Henry Moore a Firenze è anche un richiamo alla forza dell’arte nelle massime difficoltà umane e sociali. Moore è stato un faro artistico nei giorni più bui della storia europea e le sue opere ne sono una testimonianza. Abbiamo caparbiamente creduto in questo progetto, compiendo ogni sforzo per portare a casa il risultato quando le avversità si facevano insormontabili anche dal punto di vista delle risorse. Grazie alla generosità degli sponsor e al convinto sostegno dell’Amministrazione il traguardo è stato raggiunto. Ci auguriamo che questo progetto funga da modello per altre realtà, tanto per qualità scientifica che per sostenibilità. C’è un altro aspetto che va evidenziato: il carattere inedito della selezione delle opere, che consentirà di entrare nel vivo della genesi concettuale e formale del lavoro del grande scultore che qui si palesa grandissimo disegnatore. Abbiamo detto fin dal 2018 che una dei filoni di ricerca del nuovo corso del Museo Novecento sarebbe stato l’opera grafica degli artisti del novecento in un legame stretto con la grande tradizione rinascimentale fiorentina.. E così è stato. Questa mostra aggiunge un altra conquista nel percorso di educazione e aggiornamento, funzione principali di ogni istituzione museale moderna,. Infine il legame con il territorio, così necessario e originario del museo: un territorio- la Toscana, la Versilia, Firenze- cui Moore fu legato fin dalla giovinezza, sancito dalla mostra del 1972 al Forte di Belvedere, una delle più importanti del XX secolo a livello mondiale. Henry Moore è artista erede e interprete dell’umanesimo in arte, ma con la sua arte che pur resta di avanguardia ha saputo dare un contributo enorme alla genesi di quel nuovo umanesimo artistico che ha saputo definire diversamente le nozioni di bellezza e forma, in un rapporto con la natura e gli archetipi della conoscenza quanto mai attuali, rivelazioni figurative di grande empatia e poesia, che il pubblico potrà  finalmente scoprire con la desiderata apertura dei musei”.

Soffermarsi sull’opera grafica di Moore e sui temi prediletti dall’artista inglese significa allora entrare nel vivo della genesi della sua arte. Il disegno appare non solo come esercizio preparatorio dello scultore, concentrato a bloccare l’immaginazione per poi comprendere le forme e il loro sviluppo tridimensionale. Emerge infatti, dalla selezione delle opere, una pratica anche autonoma, poeticamente libera, e che comunque sembra indicare con estrema precisione quali siano state fin dalla giovinezza le fonti d’ispirazione naturali per il grande artista, che affermava: “Il profondo interesse che nutro per la figura umana non mi ha impedito di prestare, da sempre, una grande attenzione alle forme naturali, come ossi, conchiglie, sassi e così via. È ancora lo stesso Moore a dichiarare, inoltre: “La natura fornisce allo scultore un repertorio illimitato di forme e di ritmi (reso ancor più vasto dal telescopio e dal microscopio) che gli permette di arricchire immensamente la propria esperienza della forma… I sassi e le rocce ad esempio mostrano il modo in cui la natura lavora la pietra…nelle rocce, nel loro ritmo nervoso, irregolare e discontinuo, si ha la dimostrazione di come si possa agire sulla pietra spaccandola, tagliandola in  modo netto… Gli ossi presentano una sorprendente potenza strutturale unita a una forte tensione formale…. Gli alberi (i tronchi d’albero) insegnano a riconoscere i principi con cui si sviluppano e si rinforzano le articolazioni, rendendo agile la connessione tra le varie parti della struttura…Nelle conchiglie la natura ci offre l’immagine della forma dura e cava (scultura metallica) perfettamente conclusa in se stessa”

BIOGRAFIA DI HENRY MOORE

Henry Moore (30 luglio 1898, Castleford, Yorkshire– 31 agosto 1986, MuchHadham, Hertfordshire) è considerato uno degli scultori più significativi del XX secolo. Nato in una famiglia di minatori e settimo di otto figli, Moore mostra da subito un precoce interesse per la scultura, ma, persuaso dal padre, si forma come insegnante prima di arruolarsi nell’esercito britannico allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

Nel 1919 entra nella Leeds School of Art, dove completa il biennio di disegno in un anno e diventa l’unico studente del corso di scultura. Dal 1921 al 1924 frequenta il Royal College of Art a Londra, rimanendovi in qualità di insegnante fino al 1931. Nel 1925 compie un viaggio in Italia della durata di sei mesi, visitando Roma, Firenze, Assisi, Pisa, Siena, Padova, Ravenna e Venezia: ha così modo di studiare le opere dei grandi maestri come Giovanni Pisano, Giotto, Masaccio, Michelangelo, Donatello. Numerose commissioni e mostre negli anni Trenta hanno contribuito ad accrescere la reputazione di Moore, come la sua prima personale del 1928 alla Warren Gallery o la prima commissione pubblica per la sede della LondonTransport, per la quale realizza un bassorilievo in pietra collocato sopra alla stazione della metropolitana di Londra St. James.Divenuto insegnante al Royal College, incontra Irina Radetsky, una studentessa di pittura che sposa l’anno seguente. I due trasferiscono ad Hampstead la loro casa studio, dove frequentano giovani artisti tra cuiNaumGabo, Barbara Hepworth, LászlóMoholy-Nagyed altre personalità di rilievo dell’avanguardia.

Dal 1932 al 1939 Moore dirige il corso di scultura alla Chelsea School of Art, partecipando inoltre a numerose esposizioni, come quella organizzata presso la Mayor Gallery di Londra con il gruppo Unit One, “espressione di uno spirito autenticamente contemporaneo in arte” secondo le parole del pittore Paul Nash; e ancora la Mostra Internazionale Surrealista alle New Burlington Galleries di Londra;Cubismo e Arte Astratta al Museum of Modern Art di New York; la Mostra Internazionale di Arte Astratta allo StedelijkMuseum di Amsterdam. Nel 1940, in seguito al bombardamento del suo studio, si trasferisce a MuchHadham nell’Hertfordshire, dove trascorre il resto della sua vita. Dagli anni Quaranta diviene celebre oltre che come scultore, anche come disegnatore, ritraendo le persone che si rifugiavano nella metropolitana di Londra durante i bombardamenti nella celebre serie ShelterDrawings. Nel 1946 il Museum of Modern Art di New York gli dedica la prima grande retrospettiva e nel 1948 l’artista ottiene il prestigiosoPremio Internazionale di Scultura alla Biennale di Venezia. Dagli anni Cinquanta la sua carriera è caratterizzata dal successo internazionale, consacrata da numerose commissioni in Inghilterra e in giro per il mondo, come la prestigiosa commissione per la sede parigina dell’UNESCO per la quale realizza una Reclining Figure scolpita direttamente nelle cave di Carrara. È del 1951 il documentario Henry Moore prodotto da John Read per la BBC, il primo film mai dedicato a un artista vivente. Nello stesso anno si tiene anche la prima retrospettiva alla Tate di Londra.Nel 1974 inaugura a Toronto l’Henry Moore Centre alla Art Gallery of Ontario, alla quale fa dono di più di duecento opere tra sculture, disegni e grafiche. 

Nel 1972 viene allestita a Firenze, nella suggestiva cornice del Forte Belvedere, la più grande mostra mai dedicata ad Henry Moore in collaborazione con il British Council inaugurata alla presenza della principessa Margaret. “No better site for showing sculpture in the open-air, in relationship to architecture, & to a town, could be found anywhere in the world, than the Forte di Belvedere, with its impressive environs & its wonderful panoramic views of the city. – Yet its own powerful grandeur and architectural monumentality make it a frightening competitor for any sculpture – and so I know that showing my work here would be a formidable challenge, but one I should accept”, scrive l’artista in una lettera indirizzata a Luciano Bausi, allora sindaco di Firenze. Nella sede fiorentina sono esposte più di duecento opere tra sculture monumentali all’esterno sui bastioni, disegni e opere di bronzo o pietra di piccole dimensioni. La mostra risulta una tappa fondamentale nella cultura di Firenze e ha la funzione di un evento iniziatico. Si può dire che con quell’evento la città prese confidenza con il linguaggio dell’arte moderna e contemporanea. Nel 1977 l’artista creala Henry Moore Foundation per amministrare la vendita e l’esposizione delle sue opere, l’anno seguente dona 36 sculture alla Tate Gallery di Londra. Nel 1982 viene inaugurata la Henry Moore Sculpture Gallery e il Centre for the Study of Sculpture a Leeds e due anni dopo l’artista dona l’intera proprietà di Perry Green alla Fondazione, perché la gestisca in perpetuo incoraggiando le giovani generazioni di artisti e la promozione della scultura nella vita culturale del paese. L’artista muore il 31 agosto 1986 all’età di 88 anni nella sua casa di Perry Green, dove ha sede oggi la Henry Moore Foundation.

HENRY MOORE IN TOSCANA A CURA DI SERGIO RISALITI

Come evento collaterale dell’esposizione Henry Moore. Il disegno dello scultore il Museo Novecento ospita sino al 30 maggio 2021 nelle sale al secondo piano, attigue alla raccolta di Alberto Della Ragione, la mostra Henry Moore in Toscana.

Il progetto nasce con l’intento di sottolineare il legame tra lo scultore e il territorio toscano e presenta una serie di opere provenienti da collezioni private che testimoniano, insieme a documenti e fotografie, l’intensa relazione artistica e affettiva che legò lo scultore alla città di Firenze e alla Toscana. Un rapporto intenso nato a partire dagli anni ’20 quando, giovane studente, lo scultore soggiornò nelle principali città toscane e poi consacrato nel 1972 con la grande mostra che la città di Firenze gli dedicò nel 1972 al Forte Belvedere. Il viaggio di studio in Italia del 1925 rappresentò per Moore una sorta di rivelazione, l’osservazione dal vivo dei capolavori dei maestri toscani del Trecento e Quattrocento lo accompagneranno a lungo e segneranno la sua formazione artistica insieme allo studio della scultura primitivista ed extraeuropea, scoperta al British Museum di Londra, delle avanguardie storiche, di Brancusi e Picasso.

Il progetto  nasce dalle costole della mostra concepita in collaborazione con la Fondazione Moore e ne vuole essere un importante corollario. Le opere provenienti da collezioni private – tutte acquistate negli anni a ridosso della antologica fiorentina – testimoniano  l’intraprendenza culturale e il gusto di amanti dell’arte contemporanea in grado di vedere il bello, la poesia, anche in forme di dirompente novità come quelle di Moore in quegli anni, in una città fin troppo impermeabile alla contemporaneità. Vogliamo definire illuminati quei collezionisti, grazie alla loro intuizione si dette vita alla grande operazione del Forte Belvedere,  un vero Rubicone nella storia culturale e sociale fiorentina,  e di lì a poco a quella realizzata a Prato che con la velocità e il senso del rischio, tipico della città laniera, seppe aggiudicarsi una delle sculture monumentali di Moore presentate sui bastioni del Forte di San Giorgio. Moore fu a Firenze giovanissimo, volendo perfezionare il suo gran tour italiano, quella forma di iniziazione alla grande arte classica e rinascimentale cui non poteva sottrarsi ogni artista anglo-sassone.  Ma il suo non fu solo un innamoramento per l’arte di Giotto, Donatello, Masaccio o Michelangelo. In Versilia, lo scultore venne in contatto con la realtà manifatturiera locale, quella enorme tradizione di sapienza artigianale e artistica nelle mani degli scalpellini e dei cavatori. Fascinazione per il paesaggio delle cave Apuane e per la serenità salubre del litorale tra Forte dei Marmi e Carrara, dove Moore incontrò una comunità artistica e di letterati con cui confrontarsi e costruire rapporti di stima e amicizia. Voglio sentitamente ringraziare tutti i prestatori delle opere che hanno aderito al progetto, coloro che hanno aperto le case, gli archivi di famiglia. Senza il contributo delle curatrici e curatori del museo questo progetto non sarebbe stato possibile. Un ringraziamento va anche agli autori dei testi in catalogo che hanno arricchito di informazioni una vicenda collezionistica importante per la storia culturale e sociale toscana”.  

Nei bronzetti esposti in queste sale – molti dei quali modelli preparatori di sculture monumentali – ricorrono alcuni soggetti cari all’artista, dallo studio della figura umana e delle vertebre, alla rappresentazione delle donne sdraiate e delle mani, oltre a un equilibrio unico delle forme tra pieni e vuoti che fu carattere distintivo di tutta la sua pratica. Le immagini d’epoca lo ritraggono con amici e intellettuali durante le estati trascorse tra la Versilia e le cave di marmo di Carrara, tracciando una storia fatta di legami e affetti continuativi. Molti di questi amici, tra cui Maria Luigia Guaita, Giuliano Gori e Anna Maria Papi, segneranno la presenza dell’artista sul territorio e il suo rapporto con le istituzioni locali, assicurando anche l’arrivo di opere come Warrior with Shield (1953-1954) oggi ospitata nel chiostro detto ‘di Arnolfo’ della basilica di Santa Croce a Firenze e Large Square Form with Cut (1969) in piazza San Marco a Prato.

La mostra e il catalogo che la accompagna rendono quindi omaggio tanto all’artista quanto ai suoi collezionisti, che ne seppero valorizzare la figura e il genio nel segno del mecenatismo e di un amore indiscusso per l’arte. Il legame tra lo scultore britannico e la Toscana è ripercorso attraverso le tappe che scandiscono la mostra, articolata in sculture e fotografie. Sul finire degli anni Cinquanta Moore si reca per la prima volta a Querceta, nei pressi di Forte dei Marmi sul litorale toscano. L’occasione è la produzione di una grande scultura commissionata dall’Unesco nel 1957 per la sede centrale di Parigi. In quegli anni l’artista si dedica prevalentemente alle opere in bronzo ma per la nuova creazione sceglie il travertino, la stessa pietra usata nella decorazione dell’edificio Unesco, e, insieme agli artigiani delle cave carraresi della società Henraux , lavora alacremente per scolpire una monumentale Reclining Figure (figura distesa) 

Le tante visite compiute sulla riviera toscana e al monte Altissimo, “un luogo affascinante ed eccitante” ricorda Moore, dove nelle cave “Michelangelo trascorse due anni della sua vita”, lo convincono ad acquistare nel 1965 un villino dove passare le estati insieme alla moglie Irina e alla figlia Mary. Le immagini provenienti dall’Archivio Papi Cipriani raccontano con tono intimo e familiare alcuni momenti di quegli anni toscani trascorsi tra il lavoro e la famiglia nelle cave, nello studio e sul litorale, insieme ad amici e intellettuali come Eugenio Montale, compagno di molti soggiorni, in una normalità quotidiana in cui “non succedeva nulla, eppure succedeva tutto”. 

Di lì a pochi anni nascerà anche l’idea della mostra al Forte di Belvedere, la più grande retrospettiva mai realizzata dell’artista che inaugurò anche una nuova era per la cultura fiorentina e il suo rapporto con l’arte contemporanea.  In occasione della mostra verrà realizzato un mediometraggio per raccontare attraverso testimonianze di personalità del mondo culturale toscano il ricordo della mostra del ‘72 e della presenza di Moore sul territorio.

“Riapriamo finalmente i musei con questa mostra di Henry Moore fortemente voluta a dispetto della pandemia dal museo Novecento di Firenze” – afferma Tommaso Sacchi, Assessore alla Cultura del Comune di Firenze – “Un piccolo segnale di speranza in un momento molto difficile per la cultura, fortemente penalizzata negli ultimi mesi. Se di Moore scultore tutti abbiamo più o meno un’infarinatura, la sua corposa produzione di disegni è più misconosciuta e con questa mostra abbiamo una imperdibile occasione per apprenderla e per tornare a rendere omaggio, a quasi 50 anni dalla indimenticabile esposizione al Forte di Belvedere, a uno dei protagonisti indiscussi dell’arte del secolo scorso”.

I soggetti dei disegni di Moore

L’interesse per le forme primordiali e per la forza strutturale che soggiace alle diverse conformazioni della natura, unito all’osservazione dell’anatomia umana dentro e fuori il paesaggio, sono soggetti ricorrenti nei disegni di Moore che hanno guidato la selezione delle oltre settanta opere in mostra. Collegati da una comune ricerca sui principi di ritmo, struttura e forma, i soggetti esposti consentono di rileggere la produzione dello scultore rivelando importanti richiami alla tradizione anglosassone, tra pittura romantica di paesaggio (il riferimento è, in particolare, ai disegni dedicati agli eventi atmosferici di William Turner) e osservazione più prettamente scientifica (si pensi ai disegni dedicati agli animali tipici di una certa cultura anglosassone). Il motivo delle mani permette infine di approfondire un altro tema caro all’artista. Per Moore, infatti, esse non costituiscono solamente uno strumento indispensabile dell’attività artistica, ma sono a loro volta un soggetto che consente di veicolare un ampio spettro di emozioni, sensazioni, sentimenti. Al motivo della mano – ricorrente in altri scultori, come ad esempio Auguste Rodin - viene inoltre ricondotta l’origine della creazione e della costruzione della forma nello spazio. Le mani, oltre lo sguardo, diventano veicolo della connessione profonda tra l’oggetto naturale e la coscienza interiore di esso. I disegni sono accompagnati da una selezione di sculture in bronzo che evidenziano l’evoluzione della forma dalla carta alla materia plastica, oltre ad un album dedicato agli animali, tra i soggetti da lui prediletti.

Il paesaggio

“La natura fornisce allo scultore un repertorio illimitato di forme e di ritmi (reso ancor più vasto dal telescopio e dal microscopio) che gli permette di arricchire immensamente la propria esperienza della forma… I sassi e le rocce ad esempio mostrano il modo in cui la natura lavora la pietra… nelle rocce, nel loro ritmo nervoso, irregolare e discontinuo, si ha la dimostrazione di come si possa agire sulla pietra spaccandola, tagliandola in modo netto… Gli ossi presentano una sorprendente potenza strutturale unita a una forte tensione formale…. Gli alberi (i tronchi d’albero) insegnano a riconoscere i principi con cui si sviluppano e si rinforzano le articolazioni, rendendo agile la connessione tra le varie parti della struttura…Nelle conchiglie la natura ci offre l’immagine della forma dura e cava (scultura metallica) perfettamente conclusa in se stessa”. 

Le ossa

“Uno scultore è una persona ossessionata dalla forma e dalla struttura delle cose; e non dal formarsi di una data cosa, ma di qualsiasi cosa; la crescita di un fiore; la tesa e dura forza dell’osso nella sua forma delicata; la solida carnosità del tronco di un faggio”. (1964)

“Fin da quando ero studente ho sempre amato la forma delle ossa, le ho disegnate, le ho studiate al museo di storia naturale, ne ho raccolte sulle spiagge e altrove e le ho gelosamente conservate”. (1965)

Le rocce

“L’osservazione della natura è parte della vita dell’artista, amplia la sua conoscenza delle forme, gl’impedisce di lavorare secondo formule precostituite, gli dà freschezza e ne nutre l’ispirazione…

Ciottoli e rocce mostrano la Natura al lavoro sulla pietra…

Le rocce mostrano lo scalpellamento più rozzo della pietra, hanno il ritmo di un blocco spezzato e nervoso.

Le ossa hanno meravigliosa forza strutturale, forma dura e tesa, transizioni sottili dall’una conformazione all’altra e grande varietà in sezione….

Nelle conchiglie è esibita la forma vuota ma dura della natura e la meravigliosa completezza delle forme singole”. (1934)

Le mani

“Possono implorare o rifiutare, prendere o dare, essere aperte o chiuse, mostrare contentezza o ansia. Possono essere giovani o vecchie, belle o deformi…Nel corso della storia della scultura e della pittura si scopre che gli artisti hanno espresso attraverso le mani i sentimenti che volevano rappresentare”. (1980)

“La percezione della forma è per lo scultore una sensazione interiore: ogni forma, infatti, indipendentemente dalle sue dimensioni e dalla sua complessità, viene da lui percepita come se fosse contenuta nell’incavo della sua mano, e visualizzata mentalmente nella molteplicità dei suoi aspetti”.

Gli alberi

“...gli alberi spogli d’inverno a quelli coperti di foglie dell’estate. I tronchi degli alberi mostrano per me un collegamento con il corpo umano - i loro arti si diramano come braccia e gambe dal tronco di una figura. Per me gli alberi hanno anche una chiara affinità con la scultura. L’immobilità di un albero, radicato nel terreno, ha quel tipo di stabilità che amo nella scultura”. (1979)

Gli animali

“Dapprima le vedevo come palle di lana piuttosto informi, con la testa e quattro gambe. Poi iniziai a rendermi conto che sotto a tutta quella lana c’era un corpo che si muoveva a modo suo e che ogni pecora aveva un carattere individuale”. (1979)

All’interno della mostra tra la selezione di disegni e grafiche vengono esposti eccezionalmente due oggetti, un teschio di elefante e un arazzo, che raccontano due aspetti peculiari della vita dell’artista: rispettivamente la sua passione per gli oggetti naturali e le ossa che furono soggetto ricorrente nei suoi disegni, e l’amore per la sperimentazione che lo portò a lavorare con tecniche diverse.

Il teschio di elefante

A partire dal 1970 all’interno della tenuta di Perry Green, dove oggi ha sede la Henry Moore Foundation, Moore ha a disposizione un nuovo studio di maquette, un luogo ideale in cui pensare e lavorare circondato dalla sua collezione di oggetti naturali e ossa, tanto amate per la consistenza materica e la complessità strutturale. Tra queste ultime vi è anche un teschio di elefante - esposto eccezionalmente al centro di questa sala - un oggetto su cui lo scultore si applica costantemente negli anni, realizzando un album di acqueforti Elephant Skull, che sottolineano l'analisi delle forme da punti di vista variabili e con soluzioni formali sempre diverse.

Il grande teschio fu donato a Moore nel ’68 da una coppia di amici, Juliette e Julian Huxley (noto biologo, Segretario della London Zoological Society e primo direttore generale dell’UNESCO) che per anni lo avevano tenuto nel loro giardino ad Hampstead.

Così l’artista ricorda il suo arrivo a Perry Green:

“The first day I drew the whole skull to find out its general construction; gradually I became amazed at the complexity of it, and my interest and excitement grew greater each day I worked. By bringing the skull very close to me and drawing various details I found so many contrasts of form and shape that I could begin to see in it great deserts and rocky landscapes, big caves in the sides of hills, great pieces of architecture, columns and dungeons”. (Henry Moore, statement published in Alan Wilkinson (ed.), Henry Moore: Writings and Conversations, Lund Humphries, Aldershot, 2002, pp.297-98). Questi studi portarono alla realizzazione di uno dei più celebri album di grafiche di Moore, le acqueforti appartenenti alla serie Elephant Skull, datate 1969-70.

Arazzo

All’inizio degli anni ’80 Moore seleziona una serie di disegni, tra cui Tree with Broad Trunk, per realizzare degli arazzi in collaborazione con il West Dean Studio. Sperimentare con un materiale nuovo su cui ingrandire e traslare i suoi disegni rappresenta per lo scultore una sfida allettante, segno dell’amore per il mezzo grafico e di quell’instancabile eclettismo, passione e generosità artistica che animerà Moore anche sul finire della sua carriera. Per quanto la critica si sia soffermata poco sulla produzione grafica dopo il secondo dopoguerra e i celebri ritratti dei rifugiati nelle metropolitane, Moore negli ultimi anni della sua vita, che sono anche al centro di questa mostra, manifesta una grande libertà creativa e realizza un numero ingente di opere su carta.

Henry Moore in Toscana, tra Prato Firenze e la Versilia

Sergio Risaliti

Disapprovo l’idea secondo cui l’arte contemporanea sarebbe un atto di fuga dalla realtà. […] È proprio attraverso l’arte che è possibile addentrarsi ancor più profondamente nella vita stessa. L’arte non è un sedativo o una droga, né un semplice esercizio di buon gusto, e neppure un abbellimento della realtà con piacevoli combinazioni di forme e di colori; è invece una espressione del significato della vita e un’esortazione a impegnarvisi con sforzi ancora maggiori

Henry Moore

Nel 1972 avevo dieci anni, ero ancora un bambino ma già amavo sfogliare libri d’arte e disegnavo con enorme piacere. Quell’anno furono esposte decine di opere in bronzo e marmo di Henry Moore al Forte di Belvedere in Firenze, definito dallo stesso artista «il luogo più bello al mondo per le mie grandi sculture destinate all’aperto». Si trattò di una grandiosa esposizione antologica arricchita da disegni e grafiche che ha segnato un’epoca e una sorta di iniziazione per molti visitatori di allora. Strane forme scultoree si imposero allo sguardo, frapponendosi alle magnifiche costruzioni architettoniche di Arnolfo di Cambio, Giotto, Brunelleschi e Vasari. Si trattava di un nuovo linguaggio artistico immaginato a partire da studi e riflessioni sulle forme naturali e sull’anatomia umana: corpi maschili e femminili, animali e paesaggi, ciottoli e rocce, alberi e colline. Qualcosa che sembrava appartenere a un tempo cosmologico, oppure risalire a ere geologiche antecedenti la civiltà umana. Ma da ognuna di quelle opere scaturiva una riflessione sulla storia umana, sul senso dell’esistenza, tra vita e morte, gioia e dolore, godimento e sofferenza. Guardando quei lavori, alcuni delle quali di grandi dimensioni, sembrava di palpare assieme alla loro forma ogni loro contenuto espressivo, i sentimenti e le sensazioni di cui erano la sorprendente materializzazione. All’artista si riconosceva una certa potenza, il fatto di poter comunicare con un linguaggio astratto – fors’anche surreale – sentimenti profondamente umani, e soprattutto una relazione tra la vita inconscia e quella del mondo naturale e del cosmo. La critica parlò di nuovo Umanesimo, riconoscendo a Moore un ruolo nelle avanguardie pari solo a quello di Picasso e Giacometti.

L’eco di quella competizione artistica, giocata tra linguaggio contemporaneo e grande arte antica, fece il giro del mondo. La città, assopita nella sua culla rinascimentale, prese coscienza dell’esistenza di un’arte d’avanguardia tanto diversa quanto consequenziale alle opere del passato. La gente nata all’ombra della cupola di Santa Maria del Fiore, finalmente, si lasciò sedurre da un artista del proprio tempo e ne ammirò la potenza nelle forme: un linguaggio che era figlio di una tragedia – quella del terribile secolo Novecento –, scaturito dalle avanguardie storiche, poteva essere messo a confronto con quella visione estetica idealistica che per molti secoli era risultata insuperabile, a garanzia della centralità dell’uomo nell’universo. Moore convinse i più ortodossi e neghittosi fiorentini di essere erede di Brunelleschi, Donatello, Masaccio, perfino di Leonardo, artista-scienziato, e di Michelangelo, maestro di una scultura a tutto tondo e del non-finito. Egli convinse che dopo la ‘rinascenza’ c’era un altro Rinascimento moderno da scoprire, molto generoso di forme ed emozioni, di invenzioni e meraviglia. Successivamente a quella mostra nulla si conservò a Firenze per indugi dell’amministrazione, che si era però spesa nell’organizzazione di un evento epocale. Il guerriero (Warrior with Shield, 1953-54) che si conserva ancora oggi nel chiostro di Santa Croce, già esposto al Forte di San Giorgio, avrebbe dovuto rimanere a Firenze al centro della Terrazza di Saturno in Palazzo Vecchio per volere dell’artista. La città di Prato, assai industriosa e molto più propensa che Firenze a rischiare il confronto con la contemporaneità, fu lesta e fece propria una delle più monumentali sculture dell’artista inglese: una gigantesca opera in marmo a forma di vertebra forata al centro (Large Square Form with Cut, 1969-71), installata nel 1974 al centro della locale Piazza San Marco, nei paraggi del Castello dell’Imperatore e della sublime Chiesa delle Carceri, capolavoro dell’architettura quattrocentesca. Una sorta di ciambella o di vertebra colossale con un vuoto che, scavato nel cuore stesso della materia, pare generare dall’interno il corpo plastico, come se quella forma nello spazio fosse stata plasmata a partire dall’energia compressa in quel nocciolo centrale e dalle forze inerenti lo spazio circostante, evidenziando – per usare le stesse parole dell’artista – «un rapporto contrappuntistico tra la forma del nocciolo scavato e quella della figura derivata».

Osservando le fotografie e i filmati d’epoca che documentano il posizionamento di quella scultura sugli spalti del Forte di Belvedere per la grande mostra di Moore, si comprende bene quale fosse l’intenzione dell’artista, che volle assegnare all'opera forata il compito di inquadrare in punti di vista privilegiati la Cupola del Brunelleschi. Il capolavoro ingegneristico e artistico del Duomo fiorentino risultava osservato come attraverso un occhio temporale rovesciato che riduceva la distanza fra spazio e tempo. Colpiva cioè, in quella data situazione, la percezione di un ribaltamento del prima e del dopo, nel senso che l’opera di Moore appariva come appartenente a un’ età precedente la cupola del Brunelleschi.

La scultura venne poi installata a Prato. Al tempo abitavo con i miei genitori a un centinaio di metri da quell’opera così diversa da tutto quello che conoscevo dell’arte e che già mi affascinava dirottando i miei interessi e gusti. Ogni giorno passavo da Piazza San Marco e mi soffermavo a guardare quella colossale presenza artistica. Ai miei occhi di ragazzino quelle forme levigate nel marmo ricordavano pietre bianche, ciottoli e grossi massi, come quelli che raccoglievo in una cava argillosa frequentata quando trascorrevo le mie giornate dai nonni materni nei dintorni della ‘città laniera’. Con la fantasia di un ragazzino dedito all'arte, in quei sassi scorgevo l’esistenza fossilizzata di animali preistorici, ossa, resti di corpi giganteschi, riapparsi dalle crete essiccate dal sole d’estate. Mi piaceva riprodurre le forme sui quaderni di scuola. Ero interessato alla possibilità di penetrare con lo sguardo il nucleo centrale. Riuscivo a comprendere come dal centro cavo, bucato e vuoto potessero prodursi delle forme scultoree morfologicamente simili a qualcosa già esistente in natura o prodotto da essa. Iniziavo a capire come e perché nelle opere di Moore si generasse «un’impressione di reciprocità voluttuosa tra la forma del contenitore e quella del contenuto» e come tale relazione si producesse proprio attraverso un gioco contrappuntistico. Riuscivo a vedere come «la massa esterna avvolge un vuoto situato al suo centro come un organo vitale e la forma di questo vuoto sembra a sua volta generare l’insieme dell’opera». La mia ammirazione per Moore è cresciuta nel tempo, approfondendo gli studi storico-artistici, poi coniugando il suo magistero a quello immenso di Michelangelo e affiancando il suo linguaggio a quello di Brancusi e di Arp. Sono questi alcuni tra i maggiori pilastri della scultura moderna senza i quali è impossibile farsi un’idea dell’evoluzione e del linguaggio plastico nella storia dell’arte occidentale. Ma è grazie allo studio della scultura primitiva che ho meglio compreso l’estensione culturale della creatività di questo genio della forma plastica, ovvero quanto sia stata per Moore fondamentale la conoscenza dell’arte dell’antico Egitto e di quella atzeca o dei manufatti cicladici.

Quella mostra al Forte di Belvedere era stata preceduta da una serie di viaggi effettuati da Moore già in età giovanile tra Firenze e la Toscana, nei luoghi di Masaccio, Donatello e Michelangelo, tappe immancabili di un grand tour di studio. Anche nel 1967 l’artista inglese, ormai celebrato nei musei del mondo e nella grandi kermesse artistiche, a cominciare dalla Biennale di Venezia, era a Firenze quando nel mese di agosto «si aggirava... per il quartiere di San Niccolò – come scrive Lucia Mannini in catalogo – constatando le tracce ancora visibili dell’alluvione che aveva travolto la città nel novembre del 1966. Ad accompagnarlo era Maria Luigia Guaita, fondatrice nel 1959 della stamperia d’arte Il Bisonte che, poco prima dell’alluvione, aveva trovato sede nello storico quartiere artigiano. Nei mesi precedenti, toccato dai racconti sulle conseguenze del terribile evento, Moore non si era tirato indietro di fronte alla richiesta di aiuto rivoltagli da Germano Facetti, il quale, a nome di Maria Luigia Guaita, lo aveva sollecitato a intervenire a sostegno del Bisonte, che aveva perdute gran parte delle opere grafiche sotto il fango che aveva invaso il laboratorio al numero 24 rosso di via San Niccolò». Sono i momenti salienti di una storia straordinaria fatta di amicizie con collezionisti, intellettuali, imprenditori dell’arte e di ripetuti soggiorni in Toscana, per lavoro o per piacere, che porteranno poi Moore a decidersi per una grande mostra in città, quella del 1972 al Forte di Belvedere: un progetto che lo consacrerà oltre la misura della grandezza fino a quel punto raggiunta, in un confronto non più solamente con l’arte del Novecento ma con la civiltà del Rinascimento e, attraverso quella, con la storia dell’arte occidentale.

Tale tappa fu però anche anche decisiva, come scrivevamo, per la cultura fiorentina contemporanea posta di fronte a una realtà artistica innegabile, a una grandezza e magniloquenza plastica che non temevano confronto con quelle dei grandi del passato. Le cronache riportano l’impatto e la reazione suscitata nella popolazione: al Forte di Belvedere salirono oltre quattrocentomila persone, un risultato imprevisto e tutt’oggi mai raggiunto da nessun altro evento simile in città, salvo quello altrettanto scioccante ottenuto in termini di pubblico dall’esposizione dei Bronzi di Riace nel 1980.

Il protagonismo di Maria Luigia Guaita in questa e altre vicende che segnarono e segnano ancora oggi la presenza di Moore sul territorio toscano è ricostruito nella mostra odierna e nel catalogo assieme a quello di Giuliano Gori e Anna Maria Papi, ognuno dei quali coinvolti in una relazione di amicizia e passione artistica che si spinsero oltre il semplice collezionismo, dando vita a vere e proprie imprese artistiche. Giuliano Gori, collezionista tra i maggiori al mondo, artefice di quel ‘museo a cielo aperto’ che è il Parco di Arte Ambientale di Villa Celle a Pistoia, conobbe Moore in quegli anni e tra l’artista e il collezionista maturò e crebbe un amicizia sincera, come testimoniato dal suo stesso racconto, qui pubblicato. Episodio saliente di questa amicizia fu l’operazione di mecenatismo pubblico che portò alla conquista di un primato nell’arte contemporanea di Prato rispetto a Firenze, quando un manipolo coraggioso e intraprendente di industriali e amanti dell’arte convinse l’amministrazione locale ad acquistare la scultura monumentale Square Form with Cut per alloggiarla dove in passato si ergeva la Porta Fiorentina; quasi un segnale politico e culturale inviato alla culla del Rinascimento, la città che aveva ospitato la grande mostra del Forte di Belvedere senza però riuscire a conservare alcun segno di quella straordinaria vicenda artistica.

Va ricordato inoltre che, come testimoniano le belle foto dell’Archivio Papi Cipriani esposte in mostra, l’amore di Moore per la Toscana non si fermò a Firenze e Prato. Centro nevralgico della sua relazione con il territorio fu indubbiamente la Versilia con le sue spiagge, la sua comunità di intellettuali, artisti e grandi letterati, le sue montagne, le cave di marmo di Carrara e Pietrasanta, le fonderie. Lo scultore vi si recò la prima volta sul finire degli anni Cinquanta per produrre la grande opera Reclining Figure (1957-58) realizzata in travertino e destinata alla sede centrale dell’Unesco a Parigi. In quell’occasione si legò così tanto alla realtà di quei luoghi, carichi di storia e di sapienza creativa, che a metà degli anni Sessanta acquistò una villetta in Forte dei Marmi dove trascorrere le sue vacanze con la famiglia e poter lavorare nelle cave e nelle aziende del marmo al fianco di scalpellini e artigiani per abbozzare le sue ‘poesie’ scultoree.

La mostra Henry Moore in Toscana nasce dal desiderio di rendere omaggio all’intreccio di storie e relazioni che legò uno dei più grandi scultori inglesi del Novecento alla Toscana, alla sua cultura, al suo patrimonio artistico ma anche al suo presente storico. L’esposizione rende omaggio anche ai tanti attori coinvolti in questo racconto, collezionisti e imprenditori dell’arte che seppero valorizzare la presenza di Moore sul territorio nel segno del mecenatismo e di un amore indiscusso per l’arte.

Ringrazio i collezionisti che attraverso alterne vicende hanno conservato fino ad oggi la preziosa memoria di questa relazione virtuosa tra un territorio, le sue comunità e un grande artista. I piccoli bronzi di Moore esposti in mostra sono qui riuniti a costituire quasi un unico nucleo, che è giusto far conoscere e apprezzare ad un pubblico più vasto, in linea con la mission del Museo Novecento che in questa occasione incrocia la generosità dei singoli collezionisti, oltre la dimensione privilegiata del bene privato.