Cronache
Coronavirus, fuori dalle case. E' il momento. Solo così ne usciamo davvero
L'opinione controcorrente di Pietro Furlan
Dopo più di un mese dall’adozione delle prime misure restrittive della libertà personale nella guerra al COVID-19 sembrano intravedersi alcuni timidi segnali positivi, tuttavia il nemico è ben lungi dall’essere sconfitto e la strada irta di ostacoli è ancora in salita. Ciò è valido ancor di più in Lombardia dove neppure l’ulteriore stretta imposta dalla Giunta regionale ha finora portato i risultati attesi. La Lombardia quindi costituisce una evidente anomalia in Italia, stavolta in negativo, e a sua volta l’Italia detiene il triste primato per decessi con COVID-19 in Europa.
La ragione dell’esorbitante numero di decessi nelle sole province di Bergamo, Brescia e Milano, oltre ad una iniziale e fatale generica sottovalutazione del fenomeno (ma questo vale per tutta Italia), ed a specifiche condizioni ambientali locali (la pianura padana è l’area con più alta concentrazione di PM10 in Europa), è a detta degli esperti ascrivibile alla mancanza di specifiche procedure ed alla carenza, o in taluni casi assenza, di protocolli speciali in caso di epidemie. Proprio quei protocolli specifici a reazione rapida che, sulla base dell’esperienza della SARS del 2003, hanno permesso alla piccola isola di Taiwan di gestire l’emergenza COVID-19 limitando contagi e decessi senza il lockdown o che all’Ospedale Cotugno di Napoli stanno permettendo di affrontare la situazione senza finora nemmeno un contagio tra il personale sanitario. Complice inoltre una scarsa gestione domiciliare per consentire di alleggerire il sistema sanitario come avviene per esempio in Germania, proprio i luoghi laddove ci si reca per essere curati come ospedali, istituti di ricovero e case di cura, sono in realtà diventati focolai fuori controllo.
E’ passato più di un mese dal famigerato esodo della notte dell’8 marzo ma non è avvenuta nessuna esplosione di contagi, nessun temuto collasso del sistema sanitario al Sud dove è inoltre acclarato che la gente esce di casa prendendo un po’ meno alla lettera l’ordine di auto recludersi in casa. Eppure il numero di decessi in tutte le regioni del mezzogiorno d’Italia sommando persino anche Lazio, Toscana, Umbria e Marche non arriva neppure ad un quinto del numero di decessi nella sola e tanto solerte alle regole Lombardia.
Confrontando l’Italia con il resto d’Europa è curioso notare come proprio i Paesi che hanno adottato misure simili a noi, seppur in maniera molto meno restrittiva quali Spagna e Francia, sono anche quelli con il maggior numero di vittime con COVID-19 dietro l’Italia. Quelli che hanno optato per un rilevamento a tappeto e conseguente isolamento selettivo dei contagiati (metodo coreano) senza tuttavia il lockdown come la Germania hanno un minor numero di decessi e infine i Paesi come Olanda, Svezia e Regno Unito in cui sono state prese le minime necessarie misure cautelative lasciando la porta aperta ad una diffusione controllata del virus piangono meno vittime tra i loro cittadini. Per assurdo, sembra quasi che all’aumentare delle restrizioni e dei sacrifici non corrisponda in proporzione una significativa diminuzione dei contagi.
In realtà l’apparente anomalia è dovuta al fatto che le misure adottate in Italia finora sono state massicce ma non adeguatamente efficaci perché non mirate all’obiettivo prefissato. Un po’ come succede al tizio che per segnare in porta al calciobalilla rulla come un forsennato per riuscire a colpire la pallina se non altro per mera probabilità, o come fanno i bambini nei giochini sparatutto, dove anziché prendere la mira, scaricano interi caricatori con raffiche a caso in tutte le direzioni nella speranza – anche stavolta in termini probabilistici – di abbattere più nemici possibili. Nella guerra al coronavirus si è proceduto finora alla progressiva attuazione di misure tanto eccessive quanto inutilmente restrittive da un lato, lasciando su altri fronti pericolosamente aperte le maglie della rete contenitiva del contagio; vedasi l’assenza di uno specifico protocollo nei riguardi di tutti i soggetti a rischio quali anziani ed immunodepressi. In altre parole distanziamento sociale non significa cattività coatta o prolungati arresti domiciliari. Si noti peraltro che da recenti studi è stato rilevato che l’assunzione di vitamina D riduce il rischio di contagio. In molti soggetti deceduti con COVID-19 infatti, è stata riscontrata una elevatissima prevalenza di Ipovitaminosi D, dovuta alla carenza di esposizione alla luce solare. Inoltre, nella speranza si scopra un vaccino o una idonea terapia farmacologica, allo stato attuale, l’unica vera certezza del lockdown estremo in atto ora in Italia è di far fuori solo l’economia nazionale poiché non si è neppure in grado di garantire un’adeguata protezione nel caso di una malaugurata successiva ondata di ritorno, magari in autunno, che vanificherebbe quindi i sacrifici precedentemente fatti.
Dunque ripartire adesso si deve, si può. Se si considera che più del 95% delle vittime con COVID-19 è over 60 non si capisce perché non abbiano ancora riaperto le scuole, salvaguardando in quarantena solo gli insegnanti più anziani e permettendo a tanti giovani precari di lavorare. Se la quasi totalità delle vittime con COVID-19 non rientra nella fascia d’età della forza produttiva del Paese perché non consentire almeno una parziale riapertura delle imprese? Le Forze dell’Ordine e le Forze Armate potrebbero essere più proficuamente impiegate in ausilio per garantire la necessaria assistenza domiciliare ai soggetti in isolamento quali anziani e immunodepressi anziché per multare chi passeggia. Al lavoro gradualmente potrebbero tornare gli altri, effettuando in azienda rilevazioni a tappeto e conseguente tracciamento dei contatti sulla falsa riga del metodo coreano per gli eventuali sintomatici positivi e disponendo per tutti l’obbligo dei dispositivi di protezione individuali, possibilmente non a proprie spese. In guerra i fucili non se li comprano certo i soldati.