Forteto, gli svarioni di Grasso e i tempi (lunghi) del Senato
Per Cesare Pavese c'erano due tipi di errori: quelli che puzzano di fogna e quelli che odorano di bucato. Il 1° febbraio, nell’aula del Senato, la maggioranza ha respinto (decretando un ulteriore rinvio) la calendarizzazione della discussione in aula per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sul Forteto. Commissione parlamentare invocata nel giugno 2016 dalla commissione regionale – la seconda in 5 anni - per arrivare fino in fondo a una storia di abusi e maltrattamenti che ha sconvolto – e continua a sconvolgere – la Toscana. La notizia, però, se possibile, non è questa. La notizia - tragicomica, se si vuole - è che il Presidente Pietro Grasso, nell’enunciare l’esito del voto, ha sbagliato il nome della comunità/cooperativa del Mugello (o «setta»). Lo si sente infatti scandire: «Commissione d’inchiesta Fru-Fru (sguardo veloce agli appunti, ndr) Fronteta, Fronteto, il Senato non approva».
Si dirà: e che c’è di strano? Niente, infatti. Se non fosse che il 16 novembre 2016, Grasso, ricevette privatamente (con in mano la relazione di denuncia sulle responsabilità politiche attorno al Forteto) la commissione d’inchiesta regionale. Disse di aver vagliato le carte, studiato la vicenda, analizzato i fatti. In tanti guardarono con speranza a quel gesto: che dimostrava il vivo interesse, da parte della seconda carica dello Stato, per un intreccio durato quasi 40 anni. «Un sistematico lavaggio del cervello», lo ha definito la Corte d’Appello di Firenze nel ribadire le condanne inflitte precedentemente dal Tribunale (nel giugno 2015). E tuttavia, il Presidente Grasso, sembra faticare anche col nome del Forteto.
Il disegno di legge per la commissione d’inchiesta, presentato dal Movimento 5Stelle a prima firma del questore Laura Bottici, giace nei cassetti di palazzo Madama dal 9 ottobre 2015. Cioè ancor prima che la comm. regionale si esprimesse nel merito. E dopo lo sgambetto del Pd alla Camera, nell'estate precedente, a una mozione di Deborah Bergamini (FI) sull’eventualità dell’inchiesta parlamentare: che, votata da tutta l’opposizione, venne respinta dalla maggioranza compatta. E del resto, nello stesso giorno in cui Grasso riceveva la commissione (16 novemebre 2016), il deputato Paolo Beni (Pd) metteva le carte in tavola. Affermando: «Per l'ottimo lavoro fornito dalla commissione regionale, che esamineremo attentamente, non vediamo al momento la necessità di istituire una nuova commissione d'inchiesta parlamentare». Dichiarazione singolare: perché proprio la commissione regionale, malgrado «l’ottimo lavoro» svolto, ha messo nero su bianco la necessità di maggiori poteri. Dal Parlamento. Il 24 novembre successivo, poi, la questione Forteto ha subito un’accelerata con la votazione (unanime) della dichiarazione d’urgenza. Che in sostanza snellisce l’iter per esaminare il caso e i relativi provvedimenti, ma dimezza i tempi procedurali concessi.
La crisi di Governo, però, ha stemperato gli animi. E così, tra lungaggini vari, la seconda commissione permanente di giustizia - con relatrice la senatrice Rosaria Capacchione (Pd) - non ha ancora finito di confrontarsi. Nella seduta di commissione del 31 gennaio scorso, il senatore Giuseppe Lumia (Pd), a nome di tutto il gruppo parlamentare, ha sottolineato che c’è «la disponibilità ad affrontare una tematica di così estremo interesse nei tempi più rapidi possibili». Il giorno dopo, invece, è arrivata la mancata calendarizzazione. Cioè: tempi più lunghi possibili. Non solo: è ormai probabile che si aspetterà, comunque, la fine della legislatura. A scadenza naturale o tagliando la testa al toro, con elezioni anticipate. E il Forteto, intanto, rimane lì, tra l’ambiguità del Partito Democratico e gli svarioni di Grasso. Che per ora puzzano, e non odorano.