Cronache
Garlasco, Meluzzi: "Barbarie, ha prevalso la kermesse mediatico-morale"
di Lorenzo Lamperti
@LorenzoLamperti
"Hanno usato ancora una volta il principio del poca prova e poca pena". Lo psicologo e criminologo Alessandro Meluzzi commenta in un'intervista ad Affaritaliani.it la sentenza della Cassazione sul delitto di Garlasco con la quale Alberto Stasi è stato condannato a 16 anni di carcere per l'omicidio di Chiara Poggi.
"Le perplessità sull'impianto probatorio c'erano ieri e ci sono anche oggi", sostiene Meluzzi. "Tra l'altro il procuratore generale chiedeva la ripetizione, mettendo in luce l'estrema fragilità del processo. La condanna della Cassazione è arrivata in base a indizi non sufficienti e non completamente concordanti tra loro. La prova principale resta quella della camminata derivante da una perizia tecnica smentita dalla contro perizia della difesa. Insomma, non c'erano gli elementi per sostenere che Stasi fosse colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio".
E allora perché Stasi è stato condannato? "Questa sentenza soddisfa un'esigenza di catarsi più che un'esigenza di giustizia", risponde Meluzzi. "E' difficile ammettere che in molti casi la giustizia è impotente di fronte a una mamma che piange. Ma invece è prevalsa ancora una volta la kermesse mediatico-morale. Sostengo da sempre, e non certo solo io, che sono meglio 100 colpevoli fuori che un solo innocente in carcere ma capita che si dia ascolto ai media e alla gente che chiede vendetta".
"Con Stasi hanno applicato il principio tutto italiano del "poca prova e poca pena", prosegue Meluzzi. "E' il massimo della barbarie giuridica. I giudici non sono convinti delle prove e allora decidono per una via di mezzo, come era accaduto per la Franzoni. Se davvero erano convinti che Stasi ha ucciso Chiara Poggi dovevano dargli l'ergastolo. E invece no, una via di mezzo e tra 8 anni sarà fuori".
"Uno può anche essere intimamente convinto che Stasi fosse colpevole ma se non ci sono prove sufficienti non lo puoi condannare", conclude Meluzzi. "Nelle aule di giustizia non si stabilisce la verità assoluta ma la verità processuale. Resta soprattutto questa considerazione: la giustizia italiana non ha il coraggio di attenersi a questo principio fondamentale del diritto".