Cronache

Giornata della memoria, un libro per tenere vivo il ricordo della Shoah

Di Lucrezia Lerro

Un estratto dal romanzo "Il contagio dell’amore. Etty Hillesum e Julius Spier"


– Mamma! – esclamò. E quel “mamma” aggravò la situazione emotiva della donna. Tremava mentre diceva:
– Levi, ci portano via. È arrivato il nostro turno. Dove andremo stanotte?
Levi guardò i suoi figli, avrebbe voluto salvarli, difenderli dal nemico che era quasi in casa. Ma quel senso d’impotenza che lo sorvegliava da sempre stavolta aveva preso il sopravvento. L’impotenza che sentiva adesso era la somma delle passate insoddisfazioni e quindi sarebbe stata invincibile.
Etty, in quei pochi istanti che l’avrebbero separata per sempre dalla libertà, pensava ai suoi scritti, alla fine che avrebbero fatto. Non poteva né recuperarli né affidarli a qualcuno. Non fece in tempo a fantasticare che era già per le scale, nelle mani assassine.
Si voltò verso suo padre e urlò: – Papà!
E dopo poco erano in fila: Etty, sua madre, Levi, Mischa e Jaap. Il vagone merci straripava di gente, era un fiume in piena. Una volta caricati i "passeggeri", il treno nazista li avrebbe condotti a Westerbork, campo di transito e di prigionia, e da lì in poi cosa sarebbe successo alla famiglia Hillesum? Non occorreva molta immaginazione, visti i tempi e la ferocia che dilagava per il mondo. Ad Amsterdam la gente sapeva cosa accadeva ai prigionieri dei nazisti nel campo di fango, tra le baracche.
L’unica protagonista laggiù era la morte. E poi, ci sarebbe stata Auschwitz, l’ultima tappa. Gli Hillesum erano in treno. Nessuno di loro si era mai sentito prima di allora così solo, così sperduto. Etty cercava con lo sguardo suo padre ma non lo trovava, le vennero in mente alcune battute del suo sogno ricorrente: la riconquista del padre, il padre da salvare… Non poteva fare altro che pregare, non le costava pregare, la preghiera era per lei un gesto naturale. Per tutto il viaggio sarebbe stata in compagnia di Dio.
Etty e i suoi familiari morirono con altri milioni di ebrei per mano dei nazisti. In un certo senso gli Hillesum morirono tutti lo stesso giorno, anche se nella realtà dei fatti le esecuzioni avvennero in date differenti. Il dolore precipitò nella loro vita nello stesso momento. Jaap, il fratello maggiore di Etty morì due anni dopo sul treno che liberava i prigionieri dal campo di Auschwitz.
La morte era arrivata e ne ebbero coscienza il 7 settembre del 1943, quando furono deportati da Westerbork ad Auschwitz. La morte li aveva attesi nella loro casa, al 6 di Gabriël Metsustraat. La morte si era arrampicata al terzo piano affacciandosi sulla Museumplein, sulla piazza più bella della città, sulla piazza avvolta di musica e mattoni. La morte, dal 1941 al 1943, si era insinuata tra le pagine del diario di Etty e vi si era trovata bene incontrando Dio e i versi di Rilke.
Le note di Beethoven, l’amore per Han e per Julius, l’amore dilazionato, poi assoluto. La morte lesse prima di chiunque altro le pagine del diario di Etty e lei, nel fuoco della notte di colpo la riconobbe. Si inginocchiò di fianco a lei e la presentò a Dio. La morte non era poliglotta, parlava una sola lingua, parlava e straparlava in tedesco. Avrebbe ucciso chiunque in tedesco, soltanto in tedesco. La morte parlava la lingua degli assassini. Una lingua pericolosa e insopportabile per i non nazisti che si sarebbero abituati a ospitare lo straniero in casa, che si sarebbero abituati a morire a causa dell’"ospite" indesiderato. La morte avrebbe ucciso tutta la fatica di vivere trattenuta nello sguardo del padre di Etty, tutto il timore per la vita che sua madre non osava esternare.
La morte abitava a Westerbork tra le capanne e il fango, nel sovraffollamento e le malattie. Etty, un nome che sarebbe emerso dalla memoria di Maria. Un nome che non sarebbe morto.
"La morte è la sola che non muore", ed Etty l’aveva compreso fin da bambina, quando il suo cagnolino si era accasciato di colpo sul pavimento della cucina ed era spirato. Lei accogliendolo tra le braccia si era resa conto che il cucciolo era morto e che l’unica certezza era quella fine non prevista ma reale.
Etty vedeva l’inizio e la fine nelle cose, ed era la consapevolezza di quest’ultima che riusciva a farla sentire più forte delle persone che conosceva. La morte l’aveva perseguitata fin da bambina, quando sveniva per via delle convulsioni che l’affliggevano.
– Mamma non voglio morire, mamma aiutami.
Sua madre l’abbracciava forte e la teneva nel lettone tra lei e Levi. Lui per farla addormentare inventava storie magiche, di draghi, centauri e formiche. Eroi notturni e fantastici, esseri buoni e grandiosi. Etty si addormentava tra le braccia di Rebecca e scivolando nel sonno finiva per riconciliarsi con se stessa. Una
mattina svegliandosi ricordò una frase che aveva detto Levi:
– La formica è un centauro nel suo mondo di draghi.
La frase era misteriosa e bellissima. L’aveva colpita così tanto da non poterla dimenticare, e infatti non l’avrebbe scordata mai. Sarebbe stata il suo mantra. Sul treno per Auschwitz lo recitò più volte, poi scrisse la sua ultima lettera: "Christien, apro a caso la Bibbia e trovo questo: “Il Signore è il mio alto ricetto”. Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Mischa sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. Alcuni amici rimasti a Westerbork scriveranno ancora ad Amsterdam, forse avrai notizie? Anche della mia ultima lunga lettera? Arrivederci".

[Cartolina postale che Etty lanciò dal treno il 7 settembre del 1943; fu ritrovata lungo la linea ferroviaria e spedita da Glimmen (nella provincia di Groningen) il 15 settembre 1943 (Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 1990, p. 149)]