Il fascino del Foreign Fighters
Come è noto, “l’esercito” dello “Stato Islamico” (ma da ora ci risparmieremo le virgolette) per rimpolpare le sue file ha beneficiato di combattenti stranieri, inutilmente designati in Italia come foreign fighters. Questi volontari lasciano i Paesi d’origine e vanno a rischiare la vita in un posto sconsolato, prevalentemente desertico, agli ordini di selvaggi, per partecipare a degli orrori di cui magari un giorno si pentiranno, se nel loro cervello dovesse tornare la luce della ragione. E ci si può chiedere quale perverso meccanismo li spinga a tanto.
La spiegazione più ovvia è il fanatismo religioso. Gli integralisti musulmani dovrebbero essere pronti a sostenere con le armi lo Stato Islamico perché primo nucleo di quel Califfato che dovrebbe nascere, in obbedienza alla dottrina islamica, per poi conquistare e dominare tutto il Dar al-Islam. Il Dar al-Islam è quella parte del mondo in cui domina la vera fede. Con quale gioia dei governi attualmente al potere è facile immaginare. Ma non dovrebbe essere diversa la sorte degli altri territori. A Dar al-Islàm si contrappone Da al-hard, il territorio della guerra, dove l’Islàm non ha ancora trionfato, ma dovrebbe trionfare, in seguito ad una conquista militare. Non diversamente da come gli immediati successori del Profeta conquistarono il Vicino Oriente, l’Africa Settentrionale e la Spagna. Ecco perché sentiamo parlare di issare la bandiera del Profeta sul Vaticano.
Ovviamente si tratta di progetti inverosimili, ancorati a sogni di un millennio e mezzo fa, e tuttavia essi sono capaci di far partire dei ragazzotti disinformati da Stoccolma o da Lisbona, per andare a morire a Mosul o Al-Fallujah.
La spiegazione del fenomeno potrebbe essere meno difficile del previsto. Durante le guerre ci sono i volontari e i richiamati, e naturalmente il numero dei primi diminuisce nel corso del conflitto, perché quando l’esperienza concreta della guerra irrompe nella realtà, gli entusiasmi si raffreddano. Ci sono le notizie che dànno i giornali, quelle che dànno coloro che tornano dal fronte - magari feriti nel corpo e nell’anima, quando non invalidi per tutta la vita - e c’è il dolore per quelli che dal fronte non tornano affatto. Come dice il proverbio, altro è parlar di morte, altro è morire.
Invece, su ciò che è realmente una guerra, i futuri combattenti stranieri per lo Stato Islamico non hanno notizie da nessuna fonte. I Paesi in cui si trovano sono in pace; essi stessi non hanno contatti con persone che quell’esperienza l’hanno già fatta, salvo gli stessi reclutatori; inoltre non hanno nessuna esperienza culturale, come l’avrebbero avendo letto Tucidide o, più semplicemente, “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Dunque sul piano del realismo hanno una motivazione debole, e se la loro vita si fa veramente dura, possono sempre accorgersi che la guerra è una cosa sporca e in grande misura irriferibile; possono ricordarsi che non stanno combattendo per il loro Paese e soprattutto sono costretti a dirsi che non era questa la vita che si aspettavano. Se poi per giunta si annuncia una sconfitta, la tentazione di abbandonare la nave che affonda diviene pressante. E infatti il regime è severissimo con gli stranieri che pensano di andarsene. Li considera traditori e non gli fa certo sconti.
Si sarebbe tentati di dire “peggio per loro!”, ma forse siamo di fronte ad una tragedia più generale. Tutti prendiamo delle decisioni senza essere in grado di valutarne le conseguenze lontane. Chi parte volontario in guerra potrebbe essere uno sciocco idealista, ma nel caso della scelta di un lavoro? Nel caso di un matrimonio? Non raramente i risultati sono molto lontani da quelli sperati.
Forse dovremmo perdonarci per le scelte sbagliate che non potevamo sapere sbagliate, e batterci il petto per quelle in cui abbiamo ceduto alle nostre illusioni. E dire che la regola è semplice e chiara: nel dubbio, astenersi.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it