Cronache

Sanità, ribelliamoci allo strapotere dei medici

di Anna Antolisei

Storniamo l’attenzione dalla medicina di Stato per gettare un occhio nel collaterale sistema privato alla "sindrome del camice bianco"

Nessun processo, qui, al sistema sanitario nazionale o ai protocolli adottati per le terapie ospedaliere. Per un momento, storniamo l’attenzione dalla medicina di Stato per gettare un occhio nel collaterale sistema privato, quello a cui ricorrono i benestanti per abitudine e i meno abbienti per disperazione. Protagonisti sono i terapeuti di ogni singola specializzazione, o specialità nella specializzazione: in questo tripudio di comparti scientifici, ecco che il “camice bianco” extra mutua diventa il demiurgo incontestabile, il padreterno tanto esoso quanto inafferrabile.

Parlo del luminare che, appena dismesso il ruolo gratuito di sanitario ospedaliero, atterra trafelato in una clinica privata o in uno studio di medici associati, indossa un camice un po’ meno dozzinale e inizia a fare l’identico lavoro di prima, ma a caro prezzo: per i pazienti, s’intende, e fin qui tutto è reso legittimo dal consenso del cliente. Legale, lecito, insomma. Ma si sa che, a lato dell’ordinamento giuridico, esistono i principi dettati dall’etica, i doveri della civile convivenza, i principi del reciproco rispetto. Ed è qui che vale la pena di ragionare un momento in più. E’ ovvio che chi chiede la prestazione di un medico sia, o presuma di essere, ammalato. Più difficile, invece, è renderci conto di essere anche affetti dall’unica disfunzione che nessun medico, pubblico o privato, provvederà mai a riconoscere e curare: per pura scarsità di convenienza. Si chiama “sindrome del camice bianco” e causa una vera e propria metamorfosi nella personalità dei tanti soggetti che ne sono portatori.

Diciamocelo francamente: noi esemplari umani così fieri di noi stessi e della nostra unicità; così pronti ad affermare diritti, opinioni, dottrine e canoni tutti nostri; noi spesso tigri spietate sui social, ecco che di fronte al “camice bianco” ci trasformiamo in tremanti coniglietti. Ciò che mai accetteremmo altrove, insomma, lo subiamo con reverenziale obbedienza nell’anticamera di un dottore: interminabili attese, visite sommarie, risposte impazienti o mancate indicazioni e - umiliazione suprema - il luminare che, all’ennesimo appuntamento, ancora non ricorda né il nostro nome, né il nostro problema. In sostanza, ciò che immediatamente ci porterebbe a cambiare avvocato, commercialista, notaio, architetto, ecc…, riguardo al medico non lo si vuole fare.

Superfluo analizzare il perché: quando entra in gioco il medico c’è di mezzo la nostra pelle, che diamine! E poi abbiamo indagato così tanto per accaparrarci la competenza de “il migliore”, dico bene? No, dico male perché “il migliore” non esiste; semplicemente non c’è. Ritrovato un momento di lucidità diventa ovvia l’impossibilità di eleggere a “migliore” un solo professionista tra decine di soggetti, più o meno preparati, operativi nel medesimo contesto.

Tutto si basa, dunque, sul gioco ambiguo, umorale del “passaparola”: in fondo, lo stesso che ci guida verso il ristorante più frequentato del momento o verso il parrucchiere più alla moda. Ci affidiamo, in sintesi, a un’illusione tanto consolatoria da indurci a digerire (esempi concreti) il mammografo dalle quattro ore di anticamera, il gastroenterologo dall’ora e mezzo di ritardo medio, l’oculista che riceve solo dalle 19 alle 24, l’urologo avvezzo a non fissare ore precise d’appuntamento tanto, prima o poi, la stracolma sala d’attesa si svuoterà in virtù della legge del più maleducato della fila. Passi (ma giusto dalla cruna dell’ago) se si tratta di tempo gratuitamente buttato, ma qui ogni minuto perso si paga, e anche caro!

Viene spontanea la domanda: ma lo sanno, questi signori, che fintanto che la gente è viva, ha una sua vita? Sanno che i doveri e le occupazioni altrui non valgono un centesimo in meno dei loro? Temo di sì: tranne rare e benedette eccezioni, loro lo sanno eccome e se ne infischiano, ubriachi come sono di un senso d’onnipotenza fondato sui nostri atavici terrori. Se l’impressione è corretta, difficile immaginare un comportamento più vile, arrogante, irriguardoso.

E allora perché non tornare ad appropriarci d’un minimo di dignità e non metterli alle strette? “O ti organizzi, prof, o non mi vedi mai più. O usi una segretaria o un cellulare per avvisarmi dei tuoi ritardi, oppure mi rivolgo a un altro/altra e tu non dovrai nemmeno scegliere se fatturarmi la visita o meno”. Ci sarebbe, il risultato, se questa alzata di scudi la facessimo tutti, e all’unisono. Oppure è un traguardo irraggiungibile? Non direi, se questa sacrosanta istanza diventasse anch’essa una moda. Già: se di mode vogliamo parlare, conosciamo bene le incredibili tendenze che riescono a imporci gli “influencer” dei giorni nostri. Ergo: perché non provarci? In fondo, il nostro amor proprio val bene una tosta campagna di sensibilizzazione. O no?