Cronache

Rapinatori, colpo di mano (armata): giù le pene. E il governo resta a guardare

Di Jacopo Epifani

La Consulta si inventa una nuova attenuante per il delitto di rapina. E il Governo di “destra-destra” del Decreto Caivano sta a guardare

Colpo di mano (armata)! In Italia le pene per i rapinatori le decide la Corte costituzionale

Per più di un quarto di secolo (la prima volta nel 1995, l’ultima nel 2020), la Corte costituzionale italiana (che giudica, con il potere di annullarli, della conformità a Costituzione delle leggi parlamentari e dei decreti-legge governativi) ha continuamente ricordato a sé stessa, ai giudici comuni e agli studiosi che le scelte sanzionatorie del legislatore (e, quindi, anche la misura delle pene previste dal Codice penale) potevano essere giudicate incostituzionali, ed essere annullate, soltanto se “manifestamente irragionevoli”, ossia talmente contrastanti con il canone della ragionevolezza da apparire arbitrarie. A lungo, addirittura, si è detto che la Consulta potesse al più “annullare” le disposizioni normative volute dal legislatore e ritenute incostituzionali, mai introdurre nuove norme di propria invenzione (tranne il caso in cui la loro esistenza fosse strettissimamente imposta dal dettato costituzionale e il legislatore restasse inerte: si parlava di “rime obbligate”, per limitare ai minimi termini la discrezionalità della Corte).

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Per almeno altrettanto tempo, tutti (giudici, costituzionalisti, altri studiosi) hanno visto in tale orientamento un esempio plastico, scolastico, del principio di separazione dei poteri (senza il quale il nostro Paese non sarebbe una democrazia). Questo perché – lo scriveva Beccaria – il diritto di punire è prerogativa del sovrano e nelle democrazie liberali il sovrano è il Parlamento. O il sovrano sragiona, e allora – com’è dai tempi di Commodo e Caligola – va neutralizzato (lui come persona, come avveniva allora, o, come fortunatamente si limitano a fare le corti costituzionali moderne, la sua azione legislativa manifestamente irragionevole), oppure il suo agire può essere contrastato solo con strumenti democratici (nuove leggi, referendum, ecc.). Se questo o quel crimine dovesse essere punito con tre oppure quattro anni di reclusione, è sempre stata ritenuta “scelta di merito” e, come tale, del legislatore, legittimato nella sua discrezionalità dal voto popolare.

Così è stato, almeno, fino a pochi anni fa. Da qualche anno a questa parte, invece, ha preso piede in certi ambienti accademici, politici e intellettuali l’idea che l’elettorato si sia collettivamente rincitrullito e – sebbene mai la percentuale di laureati sia stata così alta, nelle due Camere – elegga solo maniche di imbecilli, incapaci di fare ciò per cui sono profumatamente pagati nei loro soggiorni capitolini (legiferare).

Ciò ha portato un manipolo attualmente composto da quattordici illustri ultrasettantenni tra i professori e i magistrati che compongono la Corte costituzionale a convincersi di potersi sostituire sempre più spesso al Parlamento sovrano. Questo non solo quando le scelte parlamentari (formalmente espressione del volere di milioni di cittadini) appaiano manifestamente irragionevoli (cioè: deliranti, come la nomina di un cavallo a senatore) ma anche quando esse non appaiano “proporzionate” (secondo il metro di proporzione condiviso a maggioranza dalla suddetta dozzina abbondante di giudici) e finanche quando non appaiano “adeguate” al raggiungimento degli obiettivi stabiliti dalla Costituzione (sempre secondo l’idea di adeguatezza condivisa soltanto in seno alla suddetta dozzina abbondante di giudici). Praticamente: un giudizio politico. Sostanzialmente: il germe dell’oligarchia più estrema. Ma se la stessa carta costituzionale ci vuole democratici, allora anche il germe di un colpo di mano.

Così si è arrivati, lo scorso 16 aprile, alla sentenza n. 86 del 2024, pubblicata ieri, con la quale tredici giudici costituzionali hanno deciso che la pena minima per il delitto di rapina prevista dal Codice penale italiano (cinque anni di reclusione) è troppo severa, o meglio: “sproporzionata” rispetto alla gravità delle ipotesi meno violente, come quelle in cui il rapinatore si limiti a spingere la vittima o a proferire minacce, magari per appropriarsi di beni di valore modico. Per questo hanno deciso di inventare una nuova attenuante: la riduzione della pena (anche di quella minima) di un terzo nei casi in cui «per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità».

Al netto delle osservazioni tecniche (ad esempio: esiste già, nel nostro codice, l’attenuante del danno patrimoniale di particolare tenuità per i reati come la rapina), ciò che sconvolge sono la facilità e la discrezionalità con cui la Corte ha esercitato una prerogativa del legislatore: quella di inserire nuove norme nel Codice penale, che è una legge e che quindi dovrebbe essere modificato o integrato solo per legge, a meno che, come si è detto, la manifesta contrarietà a Costituzione dell’assenza di una norma nell’ordinamento ne renda “obbligatoria” l’introduzione. Se, però, dal 2019 (anno dell’ultimo aumento delle pene minime per la rapina) al 2024 abbiamo serenamente vissuto senza, il dubbio che tale attenuante fosse oggi una “rima obbligata” – e non, tuttalpiù, “opportuna” – è più che legittimo (anche perché di attenuanti, generiche e specifiche, oltre a quelle menzionate, ne esistono già in abbondanza).

Certo: cinque anni di reclusione potrebbero sembrare davvero troppi, soprattutto nei casi più lievi. Solo coloro che non hanno mai messo piede in un’aula, tuttavia, possono credere che, oggi, in Italia, chi sottrae una confezione di prosciutto da un supermercato spintonando gli addetti alla sicurezza poi finisca davvero in gattabuia per un lustro.

La realtà è ben altra, e non si chiami benaltrismo un’opera di fact checking: illustri costituzionalisti come Mengoni, Baldassarre e lo stesso Modugno, attuale membro della Corte, hanno scritto che il giudice costituzionale deve valutare e ponderare le conseguenze materiali, e non solo quelle astratte, della scelta legislativa e del suo annullamento.

Primo: ogni volta che un condannato deve espiare una pena inferiore ai quattro anni di reclusione (anche se residuo di maggior pena, ad esempio: condannato a cinque anni e ne ha già scontato uno), può uscire dal carcere (o non entrarci affatto). Secondo, ma soprattutto: nel 2017 (ultimi dati ISTAT), il 92% dei condannati per rapina (consumata o tentata) ha ricevuto una pena inferiore ai cinque anni (sulla carta, la pena minima!), il 70% una pena inferiore ai tre anni, il 45% inferiore ai due anni.

Introdurre un meccanismo che potrebbe abbassare di un ulteriore terzo la media delle pene che saranno irrogate al 70% dei condannati per rapina significa una cosa: impunità anche per i pochi che vengono beccati. Sotto i due anni di reclusione, infatti, è sempre possibile chiedere e ottenere, soprattutto se si è al primo reato, la sospensione condizionale della pena (che non è eseguita ed è, appunto, “sospesa”). L’unico precedente storico che viene in mente è l’America nord-occidentale del XIX secolo: il Far West.

C’è da temere che anche da noi giunga la guerra civile? Si profila all’orizzonte uno scontro istituzionale provocato dalla senz’altro inesorabile reazione dell’attuale maggioranza di destra-destra (la stessa del decreto Caivano e del decreto anti-rave) al salto in avanti filodelinquenziale operato dai giudici costituzionali? No, tranquilli. Come si legge nella sentenza, «il Presidente del Consiglio dei ministri non è» neppure «intervenuto in giudizio».