Cronache
Shalabayeva, indagati il capo dello Sco e il questore di Rimini

Il capo dello Sco Renato Cortese, il questore di Rimini Maurizio Improta e altri cinque poliziotti sono indagati a Perugia per sequestro di persona in relazione al caso di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Miktar Ablyazov espulsa dall'Italia il 31 maggio di due anni fa assieme alla figlia Alua (che aveva sei anni). Gli accertamenti coordinati dal procuratore capo del capoluogo umbro Luigi De Ficchy sono legati al ruolo svolto nella vicenda dal giudice di pace di Roma Stefania Lavore (da qui la competenza della Procura di Perugia) che convalido' il trattenimento presso il Cie di Ponte Galeria della Shalabayeva. All'epoca dei fatti Corte e Improta erano rispettivamente capo della squadra mobile capitolina e responsabile dell'ufficio stranieri della questura.
Stando a quanto contenuto nell'informazione di garanzia, i poliziotti e il giudice di pace, in concorso con alcuni funzionari dell'ambasciata del Kazakistan di Roma, il 31 maggio del 2013 avrebbero sequestrato la Shalabayeva e sua figlia di sei anni nella villa di Casal Palocco per espellerle subito dopo. Decreto di espulsione poi annullato con la concessione nell'aprile del 2014 alla Shalabayeva dell'asilo politico. L'inchiesta di Perugia aveva preso il via dall'esposto denuncia presentato dalla difesa di Shalabayeva proprio mentre la Procura di Roma si accingeva a concludere i suoi accertamenti con una richiesta di archiviazione al gip nei confronti di tre rappresentanti diplomatici del Kazakistan (l'ambasciatore a Roma Andrian Yelemessov, il consigliere degli affari politici Nurlan Khassen e l'addetto agli affari consolari, Yerzhan Yessirkepov) indagati per sequestro di persona.
Per il pm Eugenio Albamonte e il procuratore Giuseppe Pignatone dalle indagini non erano emerse le prove di pressioni e interferenze che i tre diplomatici avrebbero esercitato sui funzionari della Questura e del Viminale quando la signora Shalabayeva e la piccola vennero prelevate dalla loro casa alle porte di Roma. Per la procura, invece, dovevano finire sotto processo cinque poliziotti che lavoravano all'ufficio immigrazione (l'allora dirigente Maurizio Improta, il suo vice dell'epoca e tre ispettori) per i reati di falso ideologico e omissione di atti d'ufficio. Stando alla tesi della Procura romana, il giudice di pace sarebbe stato una vittima della falsa documentazione prodotta nei riguardi della Shalabayeva dai poliziotti e, come tale, indotta a emettere un provvedimento errato. "Io ho solo applicato la legge e, sulla base della documentazione fornitami dal Prefetto secondo cui il passaporto presentato da tale Alma Ayan era stato sequestrato dalla Digos in quanto alterato e contraffatto - aveva raccontato il giudice Stefania Lavore ai giornalisti in una conferenza stampa - mi sono limitata a convalidare il trattenimento della donna, proprio perche' venissero svolti accertamenti sulla sua reale identificazione. Il decreto di espulsione e' altra cosa e non fa parte certo delle mie competenze". Per la Procura di Perugia le cose andarono in altro modo.