Cronache

Strage di Buonvicino: uccise lei e tutta la famiglia. "Il raptus? Non esiste"

di Elisa Scrofani

“In queste vicende lo Stato non si vede proprio. Le istituzioni non vogliono crederci”. Parla il criminologo Sergio Caruso

"Il raptus non esiste. Ogni tragedia è annunciata". La strage familiare più grande d'Italia

“Alessandra fu affidata allo zio di Brescia, io ai miei parenti qui in Calabria, li chiamo mamma e papà, ma a scuola c’era chi mi ricordava che i miei genitori erano morti assassinati”. In famiglia, invece, un silenzio assordante. “Se chiedevo, mi rispondevano. Ma arriva il momento in cui smetti di fare domande”.

A parlare è Marco Benvenuto, uno dei due superstiti che all'epoca aveva 3 anni. Oggi ha 28 anni, vive nella città natale, ha studiato graphic e visual designer, e coltiva la passione da tatuatore. 

E’ il 19 novembre 1996 quando l’ex carabiniere Alfredo Valente spara alla moglie Genny Salemme, ‘rea’ di volere il divorzio, ai genitori 'suoi complici', alla sorella di lei con il marito, e alla nipotina di 11 anni. 6 bare, 2 caricatori da 15, 23 colpi sparati dalla pistola d’ordinanza, 14 ore di terrore. Condannato a 30 anni, Valente esce dal carcere dopo 25 grazie alla buona condotta e all’indulto, e si trasferisce a vivere a Diamante, a pochi metri dalla casa della famiglia. La strage di Buonvicino, piccolo borgo in provincia di Cosenza, per la prima volta dopo 25 anni riemerge dal silenzio che la custodiva nel crogiolo di una sorta di tradizione orale della piccola comunità. A raccontarla è "Sangue del mio Sangue”, da poco uscito in libreria, opera a quattro mani della giornalista Fabrizia Arcuri, parente della famiglia, e del criminologo Sergio Caruso, che ne ha parlato ad affaritaliani.it, mettendo in luce quelle problematiche che, nonostante un contributo più forte sul piano culturale, minano alla base l'operato di strutture indispensabili come anche i centri antiviolenza. Caruso spiega che ci sono dei segnali d’allarme da sapere per predire e scongiurare l’avverarsi di tragedie simili, come il più recente caso di Bolzano. Il libro si fa interprete della casistica del fenomeno del family mass murderer, dice, rivendicando anche la voce spesso tralasciata o dimenticata delle cosiddette vittime secondarie. E lo fa con la testimonianza diretta di Marco, che ha anche realizzato la copertina.

Perché ha scelto questa vicenda e come è nata l’idea di scriverla a quattro mani con Arcuri?

Faccio il criminologo in tutta Italia, ma sono calabrese. Mentre mi occupavo di un altro caso ho scoperto che la più grande strage della famiglia era avvenuta a Buonvicino, un paese a pochi paesi dal mio. Da lì la voglia e il desiderio di approfondire. Poi per via di un femminicidio in zona, conobbi questa giornalista che si occupava di nera, la Arcuri, e la invitai a un convegno. Quando finì mi chiese come si classificasse esattamente chi anziché uccidere la moglie uccide tutta la famiglia. E mi raccontò che il tema le stava molto a cuore in quanto parente della famiglia sterminata da Alfredo Valente a Buonvicino