"Il bordo vertiginoso delle cose", un estratto dal nuovo romanzo di Gianrico Carofiglio - Affaritaliani.it

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"Il bordo vertiginoso delle cose", un estratto dal nuovo romanzo di Gianrico Carofiglio

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L'ARCHIVIO

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IL NUOVO ROMANZO - Un caffè al bar, una notizia di cronaca nera sul giornale, un nome che riaffiora dal passato e toglie il respiro. Enrico Vallesi è un uomo tradito dal successo del suo primo romanzo, intrappolato in un destino paradossale, che ha il sapore amaro delle occasioni mancate. Arriva però il giorno in cui sottrarsi al confronto con la memoria non è più possibile. Enrico decide allora di salire su un treno e tornare nella città dove è cresciuto, e dalla quale è scappato molti anni prima. Comincia in questo modo un avvincente viaggio di riscoperta  attraverso i ricordi di una adolescenza inquieta, in bilico fra rabbia e tenerezza. Un tempo fragile, struggente e violento segnato dall’amore per Celeste, giovane e luminosa supplente di filosofia, e dalla pericolosa attrazione per Salvatore, compagno di classe già adulto ed esperto della vita, anche  nei suoi aspetti più feroci. Nel nuovo romanzo in libreria per Rizzoli Gianrico Carofiglio ci guida fra le storie e nella psicologia dei personaggi, indaga le crepe dell’esistenza, evoca, nella banalità del quotidiano,  “quel senso di straniamento che ci prende quando viaggiamo per terre sconosciute e lontane”.

Romanzo di formazione alla vita e alla violenza,  racconto sulla passione per le idee e per le parole, storia d’amore, implacabile riflessione sulla natura sfuggente del successo e del fallimento. Il bordo vertiginoso delle cose può essere letto in molti modi. Ma tutti riconducono a un punto preciso, a una sorta di luogo geometrico dell’anima in cui si incontrano la dolcezza e la brutalità, il desiderio e la paura, la sconfitta e l’inattesa, emozionante opportunità di ricominciare.

L'AUTORE - GIANRICO CAROFIGLIO è nato a Bari nel 1961. Con Rizzoli ha pubblicato Il passato è una terra straniera (2004, Premio Bancarella 2005), il graphic novel Cacciatori nelle tenebre (2007), la raccolta di racconti Non esiste saggezza (2010, vincitore del premio Piero Chiara 2010), il saggio La manomissione delle parole (2010) e il suo ultimo romanzo, Il silenzio dell’onda (2011), finalista al Premio Strega 2012.

 

SU AFFARITALIANI.IT UN ESTRATTO
(per gentile concessione di Rizzoli)

(...)

Poi c’era la chitarra. Avevo imparato gli accordi di base a dodici anni, da una brava professoressa di musica delle scuole medie e poi ero andato avanti per conto mio, con Il grande libro degli accordi, comprato con un mese di risparmi. Mi piaceva cantare ed ero intonato – anche se a casa vi erano opinioni contrastanti sul punto, e talvolta mio fratello irrompeva esasperato nella mia stanza urlandomi di smetterla di rompere le palle, che non se ne poteva più di certe lagne e che, se proprio ci tenevo, potevo esibirmi ai funerali o all’agenzia di pompe funebri che era ad appena due isolati da casa. Credo si riferisse soprattutto alle mie interpretazioni mimetiche di alcune lugubri canzoni d’autore. Allora quelle irruzioni mi sembravano solo un’ennesima conferma dell’ottusità di mio fratello, della sua insensibilità, della sua incapacità di capire la bellezza e la poesia. Oggi ho opinioni meno drastiche e non sono sicuro di come potrei reagire se qualcuno, nella stanza accanto alla mia, nel primo pomeriggio suonasse e cantasse con trasporto pezzi come Auschwitz, La ballata degli impiccati o Per i morti di Reggio Emilia.

Il mio rapporto con gli sport era poco chiaro. Senza dubbio non amavo gli allenamenti e tutti i tentativi dei miei genitori – mia madre era l’esecutrice, ma mio padre l’ispiratore – di farmi imparare il tennis, la scherma, il canottaggio fallirono di volta in volta in poche settimane o al massimo in pochi mesi. Non parliamo del nuoto e di quegli interminabili, insopportabili allenamenti, una vasca dopo l’altra in quel microcosmo di luci troppo forti e di mattonelle azzurre dall’aria vagamente ospedaliera e quell’odore di cloro che si attaccava alla pelle e ci rimaneva nonostante docce, shampoo e sapone.
Però giocavo bene a pallone e a ping-pong. Tutti e due li avevo praticati con regolarità nel mio anno trascorso all’oratorio della chiesa di San Rocco. Forse avrei avuto anche un futuro nella squadra che partecipava al campionato parrocchiale cittadino se la mia frequentazione dell’oratorio non si fosse interrotta di colpo, a causa mia.
Stavamo giocando a pallone nel campetto della parrocchia. A un certo punto un ragazzo di nome Giuseppe, detto Pinuccio u’ gress – Pinuccio il grosso –, che aveva la mia età ma pesava almeno quindici chili più di me, mi urtò con una spallata in un contrasto di gioco a pochi metri dalla porta e mi fece cadere rovinosamente. Non c’era arbitro, in quelle partite. Io mi rialzai furibondo, dicendogli di tutto – si trattava di apprezzamenti sulla moralità di sua madre e il linguaggio non era proprio da sacrestia – e pretendendo il calcio di rigore. Gli ero andato molto vicino e quello, che era un bravo ragazzo, piuttosto pacifico ma forte come un piccolo bue, mi mise una mano sulla faccia e mi spinse via, come si fa con una creatura molesta ma innocua. Era chiaro che non mi considerava all’altezza di uno scontro fisico con lui. Ora va detto che capitava con una certa frequenza di combattere fra noi ragazzini all’uscita da scuola o, appunto, dopo le partite al campetto parrocchiale. Quando si litigava e la lite era seria, andavamo a regolare i conti negli androni spaziosi di certi vecchi palazzi del quartiere Libertà. La frase che tipicamente introduceva questa situazione era: andiamo in un portone, laddove la parola portone era una sorta di involontaria sineddoche per indicare, appunto, un androne. Questi combattimenti erano eventi di un certo interesse, cui partecipava sempre un pubblico, più o meno numeroso. La regola era che si potesse lottare – nel senso di afferrarsi, spingersi, cercare di buttare l’altro a terra e poi immobilizzarlo fino a quando non era chiaro chi avesse vinto e chi avesse perso – ma evitando del tutto i pugni, gli schiaffi e i calci. In quel tipo di combattimento, con quelle regole, non avrei avuto nessuna speranza contro Pinuccio u’ gress: era troppo più alto, più grosso e più pesante di me e non sarei mai riuscito a spingerlo a terra o tantomeno a immobilizzarlo. Quando però mi mise la mano in faccia, in segno di scherno e superiorità, mi sentii invadere da una rabbia incontrollabile; mi parve che una specie di luce bianca mi abbagliasse – da allora so cosa significa essere accecati dall’ira – e senza nemmeno rendermi conto di cosa stavo facendo mi ritrovai a prenderlo a pugni. Ne piazzai almeno tre o quattro prima che qualcuno mi afferrasse da dietro e mi tirasse via mentre quell’altro, che non era stato in grado nemmeno di abbozzare una difesa o una reazione, era rimasto lì sbigottito, come tutti gli altri. La conseguenza di quei pochi istanti di follia fu la mia espulsione dall’oratorio. Per la precisione: non fui proprio espulso ma solo sospeso per un lunghissimo periodo (forse sei mesi, forse di più) alla fine del quale però non avevo più voglia di tornare in parrocchia. Mi vergognai parecchio di quel gesto. Qualche settimana dopo andai a cercare Pinuccio e gli chiesi scusa e lui, invece di darmi un bel pugno come avrebbe avuto il diritto di fare, accettò le mie scuse e mi strinse anche la mano. Ma da quel pomeriggio all’oratorio qualcosa era cambiato e nulla sarebbe tornato come prima. Quei pugni in faccia mi avevano fatto intuire una parte di me – una creatura sconosciuta in agguato nella penombra – cui non mi piaceva pensare.

(continua in libreria)