Il Rigoletto/ Sì, l'Italia ce la può fare. Prefazione - Affaritaliani.it

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Il Rigoletto/ Sì, l'Italia ce la può fare. Prefazione

La mattina in cui ho cominciato a scrivere questo testo avevo appena comprato un trapano elettrico e dunque letto le istruzioni che spiegavano come usarlo. Non si capiva nulla di nulla, e del resto sarà successo anche a voi tante volte di comprare un aggeggio, il più semplice, e di non capire minimamente come usarlo, tanto le istruzioni erano scritte come in cinese antico e non in un italiano corrente. Succede spesso a dei manuali di essere incomprensibili. Ecco, l’annotazione maggiore che mi sento di fare sul libro di Francesco Costantini, Sì, l’Italia ce la può fare – che ho avuto la fortuna di leggere in anteprima e che è una sorta di manuale a comprendere la storia nostra politica e civile degli ultimi cento anni o poco meno – è che si tratta di un libro scritto in italiano corrente, dalla prima parola all’ultimissima: dalla sua esperienza di adolescente, che vedeva rifulgere dappertutto il fascismo e i suoi pretesi trionfi, al come di un Paese che s’è oggi avviato a precipizio lungo la china della decadenza e talvolta del disonore.

Tutto è scritto in italiano in questo libro-manuale. Un italiano buono per me che del tenere i libri in mano ci campo, ma anche per il mio droghiere o per il mio ferramenta, gente che legge i giornali e capisce e con i quali converso sempre piacevolmente. Tutto di questo libro ricco e complesso lo capisci, persino le sfumature, e puoi dire di sì o di no ai giudizi che vi sono contenuti, ma non che non ti sia arrivato un pensiero o un’emozione o un’esperienza fatta in prima persona. Mai puoi dire che Costantini si sia tirato indietro, che l’abbia fatta facile nel raccontare e spiegare, che abbia cercato traiettorie più brevi nel dire dell’uno o dell’altro dei fatti che hanno scandito l’itinerario novecentesco della sua generazione, che è un po’ anche la mia; mai puoi dire che abbia cercato l’applauso facile di una claque che voleva leggere la conferma di quello in cui crede.

Ossia che tutti quelli di una parte sono dei santissimi e tutti quelli dell’altra parte fior di canaglie da catturare e ammanettare al più presto. Perché questa è l’Italia di oggi, un pullulare di Talebani dell’una o dell’altra fazione che gettano fango sul volto dei loro avversari. Quelli che accusano i “comunisti” (morti e sepolti nel 1989, alla caduta del muro di Berlino) più o meno di mangiare i bambini al dessert di ciascuno dei tre pasti quotidiani; quelli che seduti sulla poltrona di uno studio televisivo rinfacciano di essere “impresentabili” ai dieci milioni di italiani che nel febbraio 2013 hanno votato per Silvio Berlusconi. Se vi piacciono pensierini Perugina a questa maniera, questo libro lasciatelo perdere. Sarebbero pagine indigeste per il vostro palato. È difatti un libro che zigzaga tra le opposte verità, che a una pagina rivolge un complimento a Palmiro Togliatti e alla pagina dopo a Giorgio Almirante. È la confessione di un italiano profondamente ancorato a un’Europa che per le sue esperienze professionali conosce a menadito, e che ritiene tuttavia che l’attuale architettura dell’euro sia insostenibile. È un italiano che ha respirato da presto l’ossigeno delle libertà che il fascismo schiacciava ma che, quando le truppe tedesche cominciarono a ritirarsi dai siti d’Italia dove lui viveva e dove loro avevano stazionato, non s’è augurato affatto che qualcuno sparasse loro alle spalle (magari a ferire un nazi di striscio e a provocare una rappresaglia dove di italiani innocenti ne sarebbero stati massacrati a centinaia), e invece – tanto più che conosceva il tedesco – è andato loro incontro a dire quale fosse la strada migliore per andarsene, loro e le loro maledette croci celtiche. Tanto la guerra l’avevano persa e non è che si sentisse il bisogno di altre e inutili vittime.

È il libro di un cattolico democratico o, meglio, di un liberale. È il libro nitido e accorato di un italiano che nei suoi ottant’anni e oltre di vita ne ha viste molte. L’Italia fascista dei Trenta che sembrava traboccare di risultati e di talenti, dal Luigi Pirandello che vinceva il Nobel della Letteratura agli imbattibili eroi sportivi Alfredo Binda o Tazio Nuvolari o Giuseppe Meazza, agli economisti Alberto Beneduce e Donato Menichella che avevano salvato il sistema bancario italiano dalla furia della crisi economica del 1929, al quadrumviro fascista Italo Balbo che aveva attraversato l’Oceano Atlantico a capo di una squadriglia di aerei che stupirono il mondo e c’è ancora a Chicago il viale che porta il suo nome a onorarlo. E poi, dopo la guerra maledetta e umiliante e fratricida, l’Italia che ricomincia da zero e trova tutto, l’Italia del boom economico (un decennio e passa di crescita annua al ritmo del 7% del prodotto interno lordo) dove succede a un poco più che ventenne laureato in Farmacia come Costantini di entrare nel lavoro a 40.000 lire al mese, per poi trovarne uno migliore al doppio dello stipendio pochi mesi più tardi, e un terzo ancora migliore un anno dopo.

Il lavoro degli anni Sessanta, un lavoro che cresce ogni giorno e ogni giorno costruisce un altro pezzo d’Italia, e le autostrade, e il traforo del Monte Bianco (una galleria lunga 13 chilometri che aveva ridotto da tre giorni a 15 minuti il tempo necessario per passare dall’Italia alla Francia), e le prime motorette chiamate Vespa accessibili a tutti, e i frigoriferi che entrano nelle case della borghesia media, quella che oggi non ce la fa più a pagare i mutui. I denari che aumentano di anno in anno e vanno a creare nuovi posti di lavoro e nuove libertà, e per la prima volta nella loro storia gli italiani del ceto medio si prendono delle vacanze in estate e cominciano a firmare i contratti di che acquistare una casa, e solo qualche idiota dei Sessanta poteva deprecare tutto ciò quale “consumismo”, e come se ci fosse nulla di male che una popolazione reduce dalle carestie dell’economia basata sugli andirivieni del raccolto agricolo aumentasse i suoi consumi materiali. (I miei genitori erano separati. Io vivevo con mia madre, mio padre mi dava una paghetta mensile di 6.000 lire. Un giorno dei primi Sessanta me la portò a 30.000 lire. Ventenne, capii che l’Italia del secondo dopoguerra ce l’aveva fatta). Solo che non era oro tutto quel che luccicava. L’Italia cresceva ma le sue contraddizioni erano lancinanti. L’osservatorio di Costantini era in quegli anni particolarmente propizio perché il suo lavoro di imprenditore farmaceutico (nei Novanta diverrà presidente di Farmindustria) lo portava a girare l’Italia e ad assaporarne i “cinquanta milioni di sfumature” che rendevano ciascuna porzione del Paese diversa dall’altra, e talvolta in conflitto con l’altra per abitudini e cultura. Lasciamogli la parola, una pagina delle sue “confessioni” che a me sa di capolavoro nel narrare e spiegare: «Così, vivendo tra Roma, Napoli, la Sicilia, Milano, Pavia, Firenze, il Veneto e il Piemonte scoprivo una realtà che non finiva mai di sorprendermi. Mi spostavo nel Sud per selezionare i collaboratori da assumere e quando gli comunicavo lo stipendio, loro me ne offrivano una parte se li avessi assunti.

Mi spostavo nel Nord e quando ai collaboratori selezionati comunicavo lo stipendio, loro mi dicevano che avrebbero voluto guadagnare di più. Intervistavo “giovani neolaureati” in Abruzzo e vedevo arrivare un giovanotto accompagnato da suo padre che mi diceva: “Io metto la laurea e mio figlio mette l’età”. Intervistavo “giovani neolaureati” in Veneto e il giovanotto (che arrivava solo) mi diceva che a lui mancava soltanto la discussione della tesi. E mi chiedeva se poteva ripresentarsi di lì a un mese esibendo il certificato di laurea. Addestravo i miei venditori a Pavia e, dopo un’intensa giornata di lavoro in albergo, li invitavo a cena. E loro mi facevano presente che avrebbero preferito tornare a casa: “perché sa, dottore, ho la mia famiglia”. Addestravo i miei venditori a Napoli, in piazza Cavoùr (loro dicevano Càvour), mostravo un medicinale (loro dicevano “lo scatolo”) e, dopo un’ora di spiegazioni fatte in albergo, mi proponevano: “Direttore, perché non continuiamo a mare?”. Giravo in macchina per Milano con la guida di un collaboratore e lui rispettava rigorosamente le precedenze a destra e i passaggi pedonali. Giravo in macchina per Catania e il collaboratore alla guida suonava il clacson in continuazione e non dava la precedenza neanche a chi, sventolando un fazzoletto, segnalava una situazione di emergenza». Eccola l’Italia reale dei tempi febbrili. Un’Italia in cui non tutti pronunciano allo stesso modo il nome dell’uomo politico che ha voluto l’Unità d’Italia. Un Paese in cui andare in giro in auto a Milano è una cosa, a Catania tutt’altra (a Catania ci sono nato, e so di che cosa parla Costantini). Un’Italia febbrile ma contraddittoria. Figuriamoci adesso che tutto della nostra vita civile è come sotto un diluvio e i bei tempi andati, a raccontarli adesso, sembrano favole di che mettere a letto i bambini. Vi lascio intatto il piacere di scoprire che cosa ne pensi Costantini dell’attuale disastro italiano. Lui si autodefinisce “un ottimista”, mi pare si sforzi di esserlo a tutti i costi. Di qui il titolo del libro. E anche se nelle ultime pagine lascia parlare alcuni suoi amici di varia nazionalità, anche loro gente che ne ha viste tante e ne sa tanto, Costantini insiste “ce la faremo”. Alla fine, però, lascia l’ultima parola al suo “amico Francesco”, uno che ai miei occhi parla come un libro stampato: «L’Italia, dopo aver raggiunto la più completa insignificanza culturale, prosegue con determinazione la sua marcia verso il disastro economico, accompagnata dalla comica fanfara della farsa politica». Caso vuole che il nome di battesimo di “Francesco” sia quello stesso di Costantini. Forse è il suo alter ego.