Culture

Intervista allo scrittore Daniele Mencarelli: razzismo e ascesa sociale al centro del suo ultimo romanzo “Brucia l’origine”

Dalla fortunata serie televisiva “Tutto chiede salvezza”, tratta dal suo libro finalista Premio Strega Giovani 2020, all’ultimo lavoro pubblicato di recente per Mondadori

di Chiara Giacobelli

Incontro Daniele Mencarelli nel traffico di Roma: volevamo fare una chiacchierata in tutta calma davanti a un tè caldo, ma un incidente ci costringe a cambiare i piani e allora lo seguo fino alla Libreria Ubik di Casal Palocco, dove già i primi lettori lo attendono per la presentazione del suo nuovo romanzo. Daniele è gentile e genuino, lo si intuisce a prima vista, ma lo scopro ancora di più durante quel caffè che alla fine, seppur di fretta, riusciamo a prenderci. La stessa impressione la comunica anche al pubblico seduto in sala. Al mio fianco una signora confessa di non aver mai letto nulla di suo, ma che – dopo averlo ascoltato quel pomeriggio – intende acquistare almeno due libri: gli consiglio Brucia l’origine, l’ultimo lavoro che sta ancora promuovendo in giro per l’Italia, Tutto chiede salvezza (il mio preferito) e dovrei fermarmi lì, ma non riesco ad evitare di suggerirle anche La casa degli sguardi, Sempre tornare e Fame d’aria, uscito nel 2023. D’altra parte sono tutti in bella vista sullo scaffale della libreria, insieme ai volumetti di poesia che Daniele ha pubblicato, dal momento che scrivere versi è stata la sua prima forma d’arte.


 

Brucia l’origine, recentemente edito da Mondadori come tutti i suoi titoli precedenti, è un romanzo diverso rispetto a ciò che ci si potrebbe aspettare da lui. Ci ha infatti abituati al grande tema della malattia mentale, declinato sotto forma di psicosi, dipendenza da droghe, alcolismo, aggressività, depressione, bipolarismo, autismo. Qui, invece, non c’è nessuna malattia esplicita, se non fosse che, a ben vedere, quella che risulta essere malata, e in maniera piuttosto grave, è la nostra società.

La storia raccontata da Daniele Mencarelli vede protagonista Gabriele, un giovane talento che, grazie soltanto alla propria determinazione e alla bravura, riesce a fare il salto, entrando nel gotha della società milanese ricca, famosa, costituita dai più importanti designer del mondo. Non solo: si innamora della figlia del proprio capo, un nome altisonante nell’ambiente, stringendo quindi una relazione ancora più intima con quella nuova vita che tanto aveva sognato. Partito dalla periferia popolare di Roma, Gabriele si trova però catapultato in un mondo che, in fin dei conti, non gli appartiene; al contempo non può più tornare indietro, perché la distanza che ora lo separa dalla propria origine è ai suoi occhi immensa. Ne deriva una grande vergogna, che sfocia in una serie di bugie e in un senso di colpa crescenti. Un’escalation che culminerà in un finale criptico, aperto, libero a interpretazioni.


 

Daniele, con Brucia l’origine sei uscito dalla tua comfort zone per andare verso una strada diversa, inesplorata. Un atto di coraggio, senza dubbio. Come mai questa scelta?

“Perché, nonostante so bene che potrebbe rivelarsi pericolosa, nella mia visione credo che uno scrittore, o più in generale un artista, possa sì cedere a compromessi di diversa natura, ma non debba mai permettere a nessuno di indicargli i temi a cui dedicarsi. In effetti, sarei tranquillamente potuto rimanere sopra quella mattonella che avevo trovato e che mi dava qualche certezza in più: nel mio caso la malattia mentale, che in letteratura confina con la fragilità psicologica. Penso, però, che un autore non debba fare un lavoro di difesa rispetto a ciò che già possiede, quanto piuttosto protendersi in avanti per cercare tematiche sempre nuove, soprattutto se poco narrate in un determinato contesto o periodo storico.
Parto dal presupposto che non inventiamo più nulla, i temi sono sempre gli stessi da secoli, tuttavia io cerco quelle storie che sento – giocando con il titolo del romanzo – brucianti e in qualche maniera trascurate, poco osservate. Mi concentro su quanto accade qui e ora, per scovare qualcosa che a mio parere abbia un’importanza tale da dover essere trasformata in letteratura”.

In realtà all’interno di Brucia l’origine sono più d’uno i temi di interesse, anche piuttosto attuali.

“Il focus è cosa accade a chi attraversa mondi totalmente differenti tra loro, a chi ha successo e per questo si allontana dalle proprie origini, anzi diventa una persona nuova. Ciò presuppone anche dotarsi di sovrastrutture di un certo prestigio, da un punto di vista economico e culturale, come accade a Gabriele. La sua crisi diventa manifesta e ingestibile nel momento in cui, per una serie di avvenimenti che scoprirete nel libro, si ritrova temporaneamente ricollocato nel luogo da cui è partito. È a questo punto che tutto quanto conquistato diventa senso di colpa.
Questo grande tema di fondo mi permette di entrare dentro le singole scene e raccontarle senza una chiave morale, senza un giudizio; il romanzo apre quindi molte domande, ma non intende mai arrivare a una risposta. La letteratura non è la lingua delle risposte, è la lingua delle domande”.

C’è poi la questione della vergogna, sia nei confronti della fidanzata e del suo mentore per l’ambiente da cui proviene, sia rispetto ai genitori per le bugie che racconta loro.

“Esatto, se dovessi dire qual è il tema principe del libro utilizzerei proprio questo termine: vergogna. Partiamo da un presupposto: Gabriele proviene da un quartiere popolare di Roma, si afferma come artista a Milano, diventa uno dei 10 designer emergenti più importanti al mondo; quindi fa un salto da un quartiere proletario fino all’altissima borghesia milanese, in mezzo alla quale si vergogna delle proprie origini perché sente l’enorme distanza che c’è tra il luogo che lo ha partorito, la famiglia che lo ha generato, i suoi amici e la realtà che invece vive nel presente.
La vergogna che prova Gabriele nasce dal totale scollamento tra il suo passato e il suo presente, ma la domanda fondamentale è: quanto sono effettivamente distanti queste due realtà? La vergogna di Gabriele potrebbe essere totalmente immotivata? E se fosse soltanto un problema suo, magari perché non è maturo al punto da affermare senza problemi nell’ambiente milanese che è figlio di un meccanico di motorini?”.

La figura positiva della sua fidanzata, estranea alle logiche borghesi seppur nata in un ambiente molto elevato, ci fa proprio pensare che forse almeno lei non lo giudicherebbe per il mondo da cui proviene…

“Gabriele è paralizzato dalla paura e quest’ultima produce evitamento, ovvero non sperimenti mai la prova, anzi la eviti. Lui lo fa attraverso la menzogna, nei confronti di tutti, non mettendo quindi mai in contatto questi due mondi. Di conseguenza né lui né i lettori, almeno per la durata del libro, sapranno mai come il grande Franco Zardi, suo mentore, scopritore, designer di fama mondiale nonché futuro suocero, reagirà di fronte alle origini e alla famiglia di Gabriele”.


 

Il finale è aperto e interpretativo sia in questo senso, sia nell’immagine conclusiva di lui che ha delle allucinazioni. Che cosa gli sta succedendo?

“Semplicemente ciò che succede spesso agli ubriachi, ovvero vive un delirio alcolico, durante il quale si lascia andare a quel confine spesso labile tra il sogno e la realtà. Questo stato temporaneo di alterazione gli fa sperimentare momenti onirici, dove il surreale e l’immaginifico non sono più tali.
Osserva allora questi immensi elefanti mentre se ne vanno: rappresentano la sua infanzia, la sua innocenza. Lui tenta di bloccarli, ma è il tentativo vano di un individuo che all’alba della mattina successiva si sveglierà infreddolito e bagnato per la notte passata all’aperto, senza aver ancora una volta risolto nulla. È un finale molto aperto, ma di base nelle mie intenzioni si sta aggrappando alla parte più giovane e innocente di sé, simboleggiata da questi enormi acquedotti – gli elefanti, nell’allucinazione – che sono stati per lui compagni di giochi e sono tuttora i luoghi della sua casa.
Sebbene non ci sarà un seguito, il libro resta in qualche modo incompiuto, perché mi ossessiona questa idea così fallace che abbiamo: noi pensiamo che la vita permetta sempre a tutti di chiudere i conti, di mettere i puntini sulle i, invece non è così, anzi. Ogni volta che qualcosa ci fa veramente male, soprattutto se ci tocca da bambini e in qualche modo ci traumatizza, quella cosa resta per sempre dentro di noi e spesso ce la portiamo appresso, irrisolta, fino alla morte. È molto coraggioso chi prova a metterci mano; la maggior parte delle persone ci convive senza mai affrontare la questione e restando invariata per tutta la vita”.

I tuoi libri sono spesso nati a partire da esperienze personali e sono quindi autobiografici. Anche questo lo è?

“In parte sì. Qui di autobiografico c’è il fatto che anche io ho vissuto un periodo simile a quello di Gabriele e ho attraversato mondi diversi; a un certo punto ho scoperto che esisteva un ambiente totalmente differente rispetto a quello da cui provenivo: è successo quando sono entrato a lavorare in Rai e ho iniziato a frequentare per lavoro l’alta borghesia romana. Ho incontrato figli di ministri e altre persone importanti per un lungo periodo, perché mi sono occupato per vent’anni di prodotto seriale, di fiction; facevo l’editor, mentre nel 2022 ho preso la scelta molto rischiosa di dedicarmi alla scrittura a tempo pieno. Lavorare in Rai è stata un’esperienza sicuramente utile e formativa, ma iniziava ad essere sempre più forte in me il desiderio di scrivere a tempo pieno, rispetto al fare l’editor di cose scritte da altri”.

Nel libro ti guardi bene dal categorizzare o semplificare un determinato ambiente: non ci sono i buoni e i cattivi, le forme di meschinità esistono ovunque, così come la gentilezza e la solidarietà.

Nessuno parla mai del razzismo al contrario, ovvero quello del povero nei confronti del ricco. Conosciamo il discrimine sociale del ricco verso il povero, ma esiste anche l’opposto ed è quello che sperimenta Gabriele quando torna a casa dai suoi amici d’infanzia. Questo è un periodo in cui qualsiasi classificazione è sparita dal dibattito pubblico, qualsiasi confronto sulla questione delle classi sociali, della ricchezza, della povertà, è sfumato, aspirato, cannibalizzato da altri elementi di discussione che fanno più scalpore. Temi come la lotta di classe o il problema della ridistribuzione della ricchezza non suscitano più interesse.
Nel mio libro cerco di portare l’attenzione proprio sul fatto che questo divario tra ricchi e poveri c’è ancora, nonostante il mondo sia diventato talmente pieno di imitazioni e di camuffamenti da rendere a volte irriconoscibili gli uni dagli altri. Ciò non significa che la differenza di classe sia sparita: i luoghi in cui queste categorie vivono dinamiche completamente diverse sono più che mai esistenti, a cominciare dalla sanità, dove la condizione di chi non ha risorse è drammaticamente diversa rispetto a chi le ha.
In tal senso Brucia l’origine è un libro controverso, perché tutti i valori che Gabriele tenta di portare con sé da Milano e proporli ai suoi amici, specialmente quelli positivi, vengono rifiutati a prescindere. Gli viene detto che è facile parlare quando si hanno le spalle coperte, lo si infanga accusandolo di una presunta liaison con il suo mentore. Ecco, questo limite umano e antropologico nessun nuovo partito progressista è riuscito a colmarlo con una diversa narrazione, più adatta ai tempi in cui viviamo”.

C’è, però, anche un altro sentimento che oggi sembra dominare l’umanità: la rabbia.

“Sì e la si riscontra soprattutto all’interno del razzismo contemporaneo, che è sempre meno gerarchico, piramidale. Gli ultimi trent’anni hanno prodotto due grandi rivoluzioni ideologiche. La prima è l’esasperazione della sicurezza, una delle maggiori narrazioni senza fondamento della nostra epoca. La seconda è più complessa: se prima all’interno dei grandi quartieri popolari esisteva una certa coesione sociale e il ricco era l’obiettivo da combattere, o comunque colui che avrebbe dovuto togliersi qualcosa per rendere tutti un po’ più uguali, quello che è avvenuto nel corso degli ultimi decenni è lo spostamento del problema non più su chi sta meglio, ma su chi vive accanto a me e all’apparenza mi impedisce quell’ascesa a cui aspiro. In altri termini, la narrazione è talmente controversa per cui ci sembra che il più povero sia colui a cui si debba dare la colpa di frenare la nostra crescita personale. In realtà, si è interrotto quel flusso che per decenni aveva funzionato nella ridistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso, specie nel trentennio d’oro dagli anni Sessanta ai Novanta. La crescita sociale ed economica di quel periodo è terminata e di conseguenza stiamo lentamente perdendo tutti i servizi e i diritti che aveva portato con sé, dando la colpa di tutto ciò agli ultimi, a coloro che non hanno veramente nulla. È anche su questo, su questa agguerrita lotta tra poveri, che il mio romanzo cerca di far riflettere”.