Culture
Lo scrittore D. Mencarelli: “Lo Stato aumenti le risorse per la psichiatria"
“Fame d’aria”, l’ultimo romanzo dello scrittore Premio Strega Giovani 2020, vede protagonista il dramma dell’autismo
Daniele Mencarelli è uno dei migliori scrittori italiani, non tanto per la mole di premi vinti e le alte vendite, ma per il coraggio di affrontare temi scomodi senza mai edulcorarli: la malattia, il dolore, la sofferenza. Fame d’aria è il suo nuovo, bellissimo libro edito da Mondadori.
Sebbene non sia nostra abitudine intervistare due volte lo stesso autore o artista, abbiamo fatto un’eccezione per Daniele Mencarelli, con cui avevamo già conversato quando uscì il suo romanzo Sempre tornare (Mondadori, 2021, Premio Flaiano per la narrativa). La sua nuova opera letteraria, Fame d’aria, è infatti un libro come pochi altri ne esistono nel panorama italiano contemporaneo: con uno stile asciutto, a tratti rude ma al contempo poetico, Daniele racconta la storia di un padre, Pietro, e di un figlio, Jacopo, affetto da una grave forma di autismo. La loro è una relazione di amore e odio, perché Pietro non è mai riuscito ad accettare la malattia che ha sconvolto la loro esistenza; non solo: egli è totalmente abbandonato da quelle istituzioni che dovrebbero prendersi cura dei più deboli. E così, sopraffatto dalle avversità della vita, si incammina verso una strada la cui destinazione è nota a lui soltanto. Commovente, introspettivo, potente, forte di una feroce critica sociale e umana, Fame d’aria, sempre edito da Mondadori, racconta l’invalidità come nessuno ha fatto prima.
Daniele questa è una storia che, sebbene non autobiografica come le precedenti, ti riguarda da vicino. Come ti sei reso conto che era arrivato il momento di scriverla?
“L’urgenza che percepivo nei confronti di questo romanzo è legata a due tematiche: la prima è l’abbandono sociale, ovvero che cosa significhi davvero dover vegliare su un familiare fortemente invalido senza possedere grandi mezzi; la seconda è l’autismo vero e proprio. I dati delle ricerche, infatti, dimostrano il dilagare di questo fenomeno e ci fanno capire che in futuro dovremo farci sempre di più i conti. C’era inoltre l’elemento letterario, ossia la voglia di indagare una figura paterna con un destino non semplice”.
Sono stati scritti molti libri sull’autismo, ma nessuno lo ha affrontato in maniera diretta e cruda come fai tu in Fame d’aria. È stato fatto, a tuo parere, un racconto della malattia fuorviante?
“Innanzitutto oggi esiste un enorme problema che riguarda la mancanza di attenzione rispetto a temi scomodi legati alla nostra realtà; ormai da tempo la letteratura tratta poche tematiche, non approfondisce, ha perso il ruolo di denuncia e in genere evita di proporre storie non mainstream. Per me questo è un grande motivo di dispiacere, perché ritengo che un autore debba raccontare liberamente ciò che vuole rispetto alla realtà che vive. Se entriamo poi nella questione specifica dell’autismo, l’immaginario collettivo che si è creato attorno ad esso è totalmente sbagliato, dunque da destrutturare e ricostruire da capo. Compito dell’autore è allora quello di mettersi a disposizione della realtà, anche utilizzando il linguaggio più consono e veritiero, sebbene possa risultare scomodo. A mio parere i tanti che hanno raccontato l’autismo negli ultimi anni hanno fatto un disservizio, limitandosi a scrivere ciò che la gente vuole sentirsi dire; ma se pensiamo ai grandi libri del Novecento – Primo Levi fra tutti – noteremo una lingua di assoluta precisione e fors’anche cattiveria. Da scrittori dobbiamo prendere atto del fatto che il tema dell’autismo va completamente rivisto”.
Un altro aspetto molto interessante è che permetti al lettore di comprendere quanto la malattia arrivi ad invadere tutti gli ambiti della vita…
“Sì, talvolta accade che la malattia – propria o di chi ti è accanto – stravolga tutto il tuo mondo, specialmente in quei casi in cui il singolo individuo non ha gli strumenti per far fronte a un simile destino. Torna quindi il tema dell’abbandono: chi viene abbandonato si abbandona a sua volta. La verità è che manca la presenza dello Stato, mancano gli aiuti economici, le istituzioni, a volte persino gli amici e la famiglia stessa, o perché non c’è, oppure perché esistono padri, come quello di Pietro, che non sono in grado di gestire una situazione del genere e di conseguenza si allontanano dai malati. Il protagonista del mio romanzo, messo in tali condizioni, non riesce più a vivere una forma di amore verso il figlio; vede anzi il decadimento totale di quel sentimento e il montare della rabbia. La sfida e la provocazione è allora chiedersi che cosa avremmo fatto noi al suo posto: io credo che molto probabilmente avremmo preso tutti la stessa deriva, specialmente gli uomini”.
La malattia raccontata in questo libro ha due dimensioni: una è quella personale, che riguarda l’interiorità di Pietro; l’altra è quella collettiva, che interessa tutta la comunità. Possiamo dire, in questi termini, che l’autismo è un problema sociale, prima ancora che privato?
“L’autismo è a tutti gli effetti un problema che riguarda la nostra società e penso che diventerà una grande emergenza nazionale, dal momento che i bambini e i ragazzi di oggi saranno gli adulti del futuro, bisognosi di aiuto, senza più nessuno che provvederà a loro. Non mi sembra, però, che questo Paese stia minimamente iniziando a prepararsi per tale emergenza, considerando che non spende più del 3% per la psichiatria e meno dell’1% per la neuropsichiatria infantile. Ecco perché il mio vuol essere anche un libro di denuncia sociale”.
Un altro dei temi che tratti è quello dell’accettazione della malattia: più semplice per qualcuno, pressoché impossibile per altri. Nel libro suggerisci un aiuto che arrivi dall’esterno, da una ritrovata idea di comunità.
“Premetto che Fame d’aria indaga un versante particolare del rapporto con l’autismo: quello paterno. Rispetto alle donne, gli uomini tendono ad entrare maggiormente in competizione con la malattia, talvolta si defilano, o addirittura se ne vanno, cosa che una madre non fa quasi mai. Bisogna inoltre considerare il fatto che Pietro è messo nella condizione di non essere aiutato, di non accettare, in quanto è ormai abituato a non ricevere né aiuti economici né ascolti. Nella comunità in cui si imbatte trova inaspettatamente un sostegno: il messaggio è quindi quello che da soli non ci si salva; si sopravvive solo insieme, dividendo un peso altrimenti insopportabile, specie se si appartiene a un tipico modello di famiglia piccolo borghese, che quasi sempre crolla quando è alle prese con problemi così grandi”.
Tuttavia non edulcori niente: neppure in una comunità del genere si è immuni dal giudizio altrui e in fondo il dolore profondo resta un fatto privato, vissuto in solitudine.
“Esatto, anche la comunità che soccorre un padre e un figlio in difficoltà è abituata all’esercizio del giudizio. Una parte del paese vive con fastidio la presenza di questi due stranieri, mentre un’altra dapprima si lascia andare all'atto del giudicare, ma subito dopo fa scattare l’elemento della compassione, specialmente nei confronti di Jacopo, vittima della propria situazione. Il giudizio e la compassione sono le due grandi dinamiche umane da cui non si può mai prescindere. Quanto al dolore, quello assoluto e lacerante è un tema vertiginoso, specie quando riguarda i bambini: dalla Bibbia a Dostoevskij ci si interroga senza mai arrivare a una risposta definitiva. A mio avviso sono proprio questi i temi che la letteratura dovrebbe affrontare, coniugandoli al presente”.
Pietro sostiene più volte che suo figlio è pari a un vegetale, non prova e non sente nulla. In base alla tua esperienza, i ragazzi affetti da autismo sono davvero immuni alle emozioni?
“Niente affatto, sentono eccome! Nel libro ci sono dei momenti in cui viene messa in discussione proprio questa visione radicale e disamorata del padre, ad esempio quando Jacopo si lascia accarezzare da Agata, o quando ritrova sua madre. Jacopo è molto di più rispetto a ciò che vede Pietro, sempre restando nell’ottica di una gravissima disabilità”.
L’autismo è una malattia complessa di cui si sa ancora poco. Capita mai di chiedersi se si è sbagliato qualcosa, o se ci sia stato un elemento scatenante in base al quale incolpare qualcuno, o magari solo sé stessi?
“Il senso di colpa e il chiedersi se hai sbagliato qualcosa è sempre presente. Si tratta di un disturbo talmente dinamico e complesso, peraltro esploso negli ultimi decenni a livello numerico, da aprire tantissimi interrogativi, nei medici così come nei genitori. Questi ultimi fanno spesso tentativi disperati per trovare una ragione rispetto a un destino che in realtà non ha nessuna ragione. È una malattia multifattoriale, genetica, in cui interagiscono centinaia di variabili: qualsiasi uomo toccato da un dolore profondo vuole trovare un colpevole e tutti i genitori che vivono problemi di salute con i propri figli passano attraverso questo interrogatorio terribile, ma la verità è che esso non porta a nulla, se non a consumarsi l’esistenza. Anche qualora si trovasse una causa scatenante – ed è pressoché impossibile – non saremmo comunque in grado di cambiare il passato, né di migliorare il presente. Si rischia, anzi, di cadere vittime di teorie complottiste, di approfittatori e di gente esaltata”.
Che cosa vorresti dire ai genitori di bambini e ragazzini con invalidità gravi?
“Mi piacerebbe dire loro da scrittore, da uomo e da genitore che dobbiamo riscoprire tutti assieme l’idea di una società in grado di considerare i figli non come parte di una singola famiglia, ma di una comunità. È fondamentale sostenersi a vicenda, partendo dalla base e dalle persone, perché in questo momento storico la politica è del tutto incapace di proporre qualsiasi aiuto o miglioramento, a parte quello per la propria autosussistenza”.
E cosa vorresti dire, invece, alla nostra premier?
“Di aumentare quel misero 3% destinato alla psichiatria per farlo diventare almeno un 5 o magari un 7, perché le problematiche legate a questa sfera sono in costante crescita. Un Presidente del Consiglio che si professa una madre cristiana e patriota ha il dovere di pensare anche ai figli degli altri, specialmente quelli meno fortunati, non certo per colpa loro. Va recuperato il primato dell’infanzia, poiché i bambini di oggi saranno gli adulti del domani”.
Un’ultima domanda: quanto è stato difficile scrivere questo libro?
“Vengo da libri più autobiografici, anche se detesto questa definizione. Dopo i tre romanzi precedenti mi è costato moltissimo scrivere quest’ultimo, specialmente nell’esercizio di dover scendere con il linguaggio a quella brutalità che era necessaria al contenuto, senza fare sconti. Non è stato semplice adottare lo sguardo disinnamorato di Pietro e immaginare cosa possa provare un uomo che prima si sente chiamare papà e poi perde tutto. Penso che questo sia il mio libro più maturo, di certo quello che ha richiesto la maggiore fatica umana e psicologica”.