Culture

Reportage d'autore tra i fantasmi dell'ex industria italiana...

 

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Che fine hanno fatto le ceneri di Mike Bongiorno? Il reportage di D’Arcangelo pubblicato da Fandango

 

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Giancarlo Liviano D’Arcange

 

 Milioni di metri quadri. È infinito, in Italia, lo spazio che nel corso dell’ultimo secolo è stato annesso, conquistato, sottratto alla natura e manipolato dalla produzione industriale. Acciaierie, raffinerie, miniere, cotonifici, centrali nucleari, cementifici. Cattedrali gigantesche sono sorte dal Piemonte alla Sicilia, simboleggiando, con la loro grandezza, una promessa di benessere infinita che in pochi decenni ha completato la propria metamorfosi in degrado, archeologia, speculazione immobiliare. Da questi immensi scenari, ora più simili a città fantasma o a orizzonti postatomici che a centri nevralgici della società del benessere, è transitata l’anima della società italiana, guidata, secondo le esigenze del capitale, alla capillare rimozione di un intero immaginario secolare, poi affogato, come i rigagnoli di un piccolo affluente travolto dallo scioglimento di un immenso ghiacciaio, nel vuoto liquido della cultura di massa. Dalla Sicilia al caso virtuoso della fabbrica Olivetti di Ivrea, dalle fabbriche abbandonate della Lombardia alla miniera di Montevecchio in Sardegna, da Crespi d’Adda, all’area infetta dell’Italsider di Taranto attorno a cui nacquero decine di piccoli paesi dormitorio ora divenuti catacombe, un lungo viaggio, tra passato, presente e futuro, attraverso i luoghi che hanno rimodellato l’Italia e il nostro modo di pensare il lavoro.  "Invisibile è la tua vera patria - Reportage dal declino. Luoghi e vite dell'industria italiana che non c'è più" (Il Saggiatore) di Giancarlo Liviano D’Arcangelo è un reportage narrativo che volge alla ricerca di storie umane d’impostura e speranza, di fiducia e speculazione, di emigrazione e resistenza, di creazione effettiva di ricchezza e interessi privati assorti a benefici collettivi, per capire, attraverso l’osservazione capillare dei luoghi, la potenza delle suggestioni, e l’accostamento metodologico tra passato, presente e futuro, in che modo, nel nostro paese, è deflagrato lo scontro tra modernità e umanesimo.

L'AUTORE - Giancarlo Liviano D’Arcangelo (Bologna, 1977) ha pubblicato Andai, dentro la notte illuminata (PeQuod, 2007) e Le ceneri di Mike (Fandango, 2011).

 

 

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LEGGI SU AFFARITALIANI.IT UN ESTRATTO DEDICATO ALL'ILVA(per gentile concessione de Il Saggiatore)

Il buio e la luce a Taranto

Confondersi, qui, è facile. È impossibile, mi pare, catturare l’intero moto coordinato di ciò che accade nello stabilimento. Il soccombere del corpo, o l’infortunio, sono accadimenti connaturati alla normale attività che scandisce il trascorrere del tempo, che sembra così metodico, organizzato e banale nella meccanicità coordinata di quello che senza apparente difficoltà succede e si ripete, che l’imprevisto sembra manifestarsi come necessità segreta, come scintilla di vita, come ripristino benefico del caos non soltanto fuori dai recinti. Non riesco tuttavia a scrollarmi di dosso il fascino ammiccante del luogo, che comunque trasmette uno strano senso di eternità e riflette la magnificenza dell’intelletto umano, oltre che una furia tecnica e organizzativa senza limiti, ontologicamente legata all’ambizione, come se il passo successivo fosse la serena conclusione di un processo biologico, l’annichilimento di tutto ciò che qui è governato, che si tratti di carne, materia o robot. In questo recinto l’uomo è davvero in grado di sottomettere la natura, eppure è evidentemente sottomesso a sua volta. E la prova arriva quando vedo passare un operaio avanzare placido sotto i cumuli che un attimo prima mi sembravano avanzi morti di litosfera, duri e ingovernabili. È un controllo reciproco, il padrone che ottiene il dominio, e che in quello stesso istante, in quel dominio si esaurisce interamente, devitalizzandosi in modo irreversibile. La proporzione tra uomo e natura, in un’acciaieria, si stravolge sempre come in un gioco di maree, così come quella tra uomo e macchina. Osservando le andature, o la serena attesa di molti degli uomini impiegati ci si stranisce. Io stesso avevo l’idea di un lavoro fisico genericamente più duro, e invece, in un certo senso è proprio l’automazione estrema, il fluire indipendente dei processi produttivi che paiono autoinnescarsi a testimoniare l’anima profonda di questo luogo, come ennesimo tributo a quello che sembra l’effetto finale, segreto, che non è quello più esteriore, la produzione, ma per l’appunto, è la devitalizzazione. Avanzando verso la cokeria, che fa da anticamera agli altiforni, l’aria si fa più truce e calda, le sue celle sembrano forni crematori che sputeranno ghisa e ossido di carbonio, oppure un immenso carcere dalle cui celle è impossibile evadere, se non pietrificati, infrangibili, morti. «Hai mai visto una colata?» mi chiede Amedeo. «No» ammetto. «Nemmeno io, ma da come me l’hanno descritta, mi sa che è l’unica cosa che mi può far vedere di nuovo. È il lavoro secolare di un vulcano riprodotto in miniatura, tenuto sotto controllo. La ghisa liquida finisce in contenitori che si chiamano carri-siluro, perché ci sta un’energia lì dentro… in grado di distruggere qualsiasi cosa… la colata fa una luce rossa maledetta… o benedetta, che so… è come stringere in mano un pezzo di sole. Millequattrocento gradi. Chi è che non si sentirebbe un dio a tenere in mano un pezzo di sole, eh?» L’impressione del lager tuttavia non si scrolla di dosso nemmeno osservando gli zuccherosi cerchi concentrici e alternati bianchi e rossi che colorano i camini e le torri cilindriche, i cowpers che servono a riscaldare l’aria e a mandare nel forno un vento caldissimo, facendoli assomigliare a una vetrina di candy canes natalizi dalle forme diverse. Decidiamo di spostarci, e il cammino è lungo. […] L’enorme area della cava è un paesaggio lunare, la cui ampiezza è pari a circa mille campi di calcio posti uno di fianco all’altro. Grossi condotti che assomigliano, per il nitore lattiginoso in cui si confondono, a piste di quercia per slittino immerse nel paesaggio innevato, e i molti crateri in cui girano a zonzo i rimorchiatori e i tunnel sono inframezzati da fette di roccia levigate e acuminate, iceberg approdati finalmente a un posto sicuro dopo l’infinito vagare oceanico. Nelle zone più periferiche della cava sono stati scaricati, nel tempo, tutti i residui generati dalla produzione dell’acciaio e, più in generale, tutti i rifiuti prodotti dallo stabilimento. Il risultato è un’enorme pattumiera pregna di scorie di lavorazione, pneumatici usati, legnami contaminati, quintali di segatura e, come se la compressione potesse dar vita a leghe infrangibili adatte anch’esse alla costruzione di muraglie o monumenti, tutto è stoccato in cumuli alti come cattedrali. Ormai quasi non riesco a scendere giù dalla macchina. Ho il cuore in gola e respiro a fatica. Sembra di volteggiare, già morti, nel manto di fumo venefico che avvolge ogni cosa, e mentre in uno dei canali di servizio che costeggiamo in macchina nel nostro percorso che ci sta portando verso il mare, saltano all’occhio macchie oleose di bitume, il cianuro di un corso d’acqua sventurato destinato a ripulire le miriadi di evacuazioni e scoli e scaricamenti che gli vengono offerte, prima che sia la massa d’acqua marina, immensa e molto più efficiente come nascondiglio, a completare l’occultamento. È stupefacente come la natura, stuprata, contribuisca a limitare e nascondere le ondate di devitalizzazione imposte dall’area industriale. Sole e acqua e sapone ripuliscono e distruggono i microrganismi virulenti che infliggevano alle Coketown del passato carestie, epidemie e alti tassi di mortalità infantile. Ma nulla può, nemmeno attraverso il lavoro depurativo degli agenti atmosferici, contro le polveri pesanti, interpreti perfette dell’ideologia della violenza senza causa, imprevedibili nei loro effetti, mai dimostrabili con un’equazione ma feroci, letali nel lungo periodo, chirurgiche a infliggere sofferenze a chi le ha create, lavorate, accarezzate, liberate, sfruttate. Amedeo è un superstite qui, e mi sembra che non lo sappia. Eppure quando superiamo i bracci meccanici roteanti dell’impianto marittimo dove gli scaricatori a benna con le loro chele, e i nastri trasportatori saccheggiano e riempiono le navi come miopi alchimisti che sperimentano mescole in cerca della pietra filosofale, e invece maneggiano e rimestano solo ghisa, e ferro, e catrame, alla vista dei laminatoi e dei reparti di produzioni e nastri e di rivestimento tubi mi viene in mente il racconto di un ex compagno di liceo, mio questa volta, impiegato proprio nelle aree di lavorazione finale dei prodotti, che mi ha spiegato, una volta, la perizia con cui gli operai devono rapportarsi al prodotto finale, quello da vendere. I controlli a ultrasuoni sul prodotto, gli impianti a raggi laser di cui Giovanni mi raccontava la precisione computerizzata, l’attenzione spasmodica impiegata sulla verifica degli spessori delle smerigliature di cui si mostrava fiero, rilevando, con ragione, la meravigliose possibilità offerte dalla tecnica all’uomo e il suo grado di specializzazione, appaiono, se collegati a una prospettiva più omnicomprensiva, per quello che sono. Strumenti, meri strumenti. Al servizio, però, soprattutto della merce. Nelle parole di Giovanni, quella volta avevo letto una sorta di resa definitiva: l’uomo stesso, l’individuo, che ammaina le vele dell’umanesimo per festeggiare il primato della sua opera. Forse il mio confronto incrociato tra perizia verso il prodotto preteso dall’azienda e il recalcitrante indugiare, i comprovati tentennamenti nel dotare gli impianti delle più efficienti normative di sicurezza, potrà apparire incongruo. Ma di certo è indicativo di un fine esplicito, di una Weltanschauung ormai consolidata, il primato assoluto della merce, che tuttavia è a sua volta una maschera, un depistaggio o una simulazione, perché la merce ha un’anima occulta, seminascosta nella materia che la compone, e quell’anima è il denaro.

(continua in libreria)