Culture
L’intellettuale come Ulisse…
Di Alessandra Peluso
Leggendo l’articolo “Che fine hanno fatto gli intellettuali”, su “LINKIESTA” (Andrea Coccia, 9 gennaio 2016), mi ha solleticato l’idea di scrivere a proposito di questa “figura”, meglio dire professione - come infatti lo era in passato.
Non condivido il categorizzare l’intellettuale, come si è soliti per chiunque, né ritengo utile un’identificazione che alle volte rischia di diventare banale.
Osservando la realtà, gli intellettuali esistono ancora, e sono spesso nascosti, trascurati, malvoluti dai più, ma ci sono. L’intellettuale è come Dio, esiste; tuttavia, c’è anche colui o ci sono coloro che possono affermare il contrario.
Se in passato, l’intellettuale muoveva le coscienze, guidava le classi sociali, o i politici, lo fa anche oggi, se pur in toni non eclatanti. In epoca odierna, infatti, nella massificazione dell’Idea, dell’Io, è complicato emergere, soprattutto perché sono cambiate le coordinate di riferimento: i mezzi di comunicazione sono guidati da altro che va al di là dell’immaginazione. La logica economica è stata ed è ancora di più adesso il fine di ogni cosa.
E dunque, chi è l’intellettuale?
Compiendo un salto nel passato, dal momento che le qualità e le competenze dell’intellettuale sono offuscate, ricorrere all’esempio della società italiana del Cinquecento, potrà essere utile.
Nell’epoca dell’Umanesimo, l’intellettuale apparteneva ai mecenati, ai principi, era un vero e proprio professionista.
La straordinaria fortuna di questa professione di intellettuali italiani, da sottolineare, nell’Europa del XV secolo e in particolare, nel XVI e nel XVII secolo, ossia dall’Umanesimo sino all’Illuminismo, è dovuta alla loro cristallina purezza di intelligenza, cioè alla capacità di astrazione e di distillazione dei prodotti quasi neutri; inoltre, si preoccupavano del benessere dell’Umanità (Ruggero Romano).
Purtroppo, lo splendore dell’intellettuale che appartiene a tali epoche si affievolisce, sino a spegnersi, quando si prospetta il divario tra pensiero, giunto alla sua massima espressione, e la coscienza nazionale. Divario sempre più evidente oggi.
Dal momento che si tende ad assottigliare ogni aspetto della vita, e quindi procedendo per sistemi, in modo orizzontale, sembra siano scomparse anche le differenze; non ci sono più le classi sociali, l’aristocrazia ad esempio, gli “aristos”, i migliori non emergono nitidamente come in passato.
È chiaro, tuttavia, che la coscienza nazionale non concepisca la validità dell’intellettuale, perché così pare opportuno far credere. Non solo, l'intellettuale non ha come dovrebbe un ruolo prioritario, forse dovrebbe conquistarselo o, chissà, lo ha già, ma non è visibile il suo ruolo ai più.
L’intellettuale d’altronde non è un cantante, non è un ballerino, non è un presentatore, né un paroliere, ma è.
Inoltre, si può affermare, senza dubbio, come in passato la cultura umanistica, assumeva i caratteri di un sapere accentuatamente aristocratico, magari lo fosse oggi, nel quale il sapere non ha alcun sapore. Evitando però di assurgere a disfattisti, che sarebbe come fare un buco nell’acqua, pare più consono immaginare l’intellettuale come una persona non semplicemente colta, ma corredata di valori umanistici, che concepisca la superiorità delle scienze umane, e quindi del valore formativo della poesia e della letteratura, non solo, che sia anche il propulsore dell’amore meditativo e contemplativo nei riguardi della Natura, come ci ha insegnato Giordano Bruno, ad amare le “humane litterae”, a promuovere i valori della pubblica felicità: solidarietà, fratellanza, come Filangieri, o Palmieri.
Ecco, uno che guidi le coscienze come un padre i propri figli, un mentore, in attesa dell’arrivo del proprio padre. In fondo, siamo tutti un po’ come Telemaco, attendiamo ancora Ulisse, nostro padre.