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La biografia/ "Berlinguer non era triste"

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(per gentile concessione di Aliberti)
Ero bambina quando mio zio, il fratello minore di mia madre, si fidanzò: era elegante e giovane ancora, anche se aveva partecipato alla prima guerra mondiale a diciotto anni e, preso prigioniero, aveva rischiato di morire di fame nel campo di Buchenwald, che era allora solo campo di prigionia: egli raccontava spesso della guerra e dichiarava di averne viste tante che voleva vivere felice per il resto della vita. Era simpatico e spigliato e si era fidanzato, a Sassari, con una ragazza bellissima, che abitava in via Manno, e in casa della futura zietta mia madre ci portava, bambini, me e mio fratello, a farle visita. In quella casa, mentre i grandi chiacchieravano, mio fratello e io uscivamo sul terrazzino a ringhiera che, a tutti i piani, circondava il cortile interno, e spesso, sul terrazzino di fronte, comparivano due ragazzini, di sette otto anni più grandi di me. Uno aveva gli occhi celesti ed era più cordiale: ci chiamava, ci chiedeva il nostro nome. L’altro, suo fratello, era taciturno, ma ci guardava e ci sorrideva con simpatia, era bruno, con bei capelli un po’ mossi, gli occhi neri malinconici: erano i ragazzi Berlinguer. Giovanni era il minore, quello con gli occhi celesti, e il maggiore, quello bruno, era Enrico. Dopo il matrimonio con mio zio, la zia andò ad abitare altrove e non tornai più in quella casa. Qualche volta mi ricordavo di quei simpatici ragazzi, e seppi, quando ero più grandetta, che la loro madre, una signora che ricordavo molto bella, era morta di una malattia tremenda che l’aveva sfigurata, tanto che i miei cugini, amici dei due ragazzi non volevano più andare a casa dei Berlinguer perché “temevano” il viso sfigurato della signora. Poverini, avevo pensato. Intanto, ero ancora alle elementari quando la vita, prima tranquilla, della nostra famiglia, andò incontro a una sorta di bufera: mio padre, medico universitario, non aveva la tessera del Fascio e perciò era in procinto di essere cacciato dal suo posto. Mia madre lo pregava di chiedere la tessera per amore dei bambini, che se no sarebbero morti di fame! I bambini eravamo noi, io e mio fratello, e l’idea di morire di fame mi spaventava. Mio padre rispondeva urlando, perdeva del tutto la calma con mia madre e con altri parenti che venivano in quei giorni agitati a chiedergli la stessa cosa. E venne anche mia nonna dal paese, alta e solenne, in costume, e mio padre le spiegava con maggiore tranquillità e cortesia come chiedere la tessera del Fascio fosse un inutile avvilimento, perché non gliela avrebbero data, e sarebbe rimasto senza posto e senza dignità. Mia nonna aveva grande considerazione di mio padre, aveva sposato la sua figlia minore, che, invece di fare la maestra, come le sue sorelle, voleva studiare per fare la pittrice. Cosa assurda in quel tempo e nella nostra isola! Meno male che era bella aveva incontrato mio padre, medico specialista, e si era sposata. Mio padre con molta calma e educazione spiegò alla suocera per quale motivo non voleva chiedere la tessera del Fascio. Tuttavia, dopo tutti gli scontri che avevano movimentato le mie giornate, mio padre cedette e chiese la tessera, lo vidi quasi piangere o meglio trattenere il pianto, e ne fui sconvolta. La tessera non gliela diedero, come lui aveva ben previsto, e fu cacciato dal suo posto. Quell’anno non andammo al mare e cambiammo casa, dovetti abbandonare la mia cameretta, nella quale dormivo da sola sin da quando avevo solo due anni, e le amichette del quartiere con le quali giocavo per strada a guerra francese, banditi e carabinieri, oppure andavo in monopattino lungo la discesa del museo Sanna: infatti andammo ad abitare in centro in una grande casa con terrazza e giardino nella quale c’era la nostra abitazione e lo studio di mio padre. Prima che cacciassero mio padre dalla clinica dovette passare un bel po’ di tempo, mangiavo più del solito, l’idea di morire di fame non mi piaceva, ma quando mai mio padre ci avrebbe lasciato morire di fame! E mia madre, perché non andava lei a lavorare? Ma provai allora un grande dolore, forse il primo serio della mia vita: mia madre pretese che io scrivessi al Duce, di nascosto da mio padre. Io non volevo, mi pareva di tradire mio padre, ma lei mi fece scrivere a Mussolini – quando ancora babbo non si era piegato a chiedere la tessera – su un foglio in cui erano state tracciate sottilissime righe a matita: «Sono la figlia della lupa Marina Saba» e chiedevo la tessera per mio padre. Non ho mai dimenticato questo dolore di bambina, fortissimo e senza speranza, nel ricordo mi pare che ragionassi perfettamente, avrei dovuto disobbedire a mia madre e rifiutarmi di scrivere; stavo, con tutto il cuore, dalla parte di mio padre, che del resto aveva ragione, chiese la tessera e non gliela diedero. Mio padre mi aveva allevato nell’antifascismo più assoluto perché parlava con me, che pure avevo solo otto o nove anni, della mancanza di libertà. Mi raccontava la storia di Emilio Lussu, il nostro eroe nazionale sardo che, dopo essersi valorosamente battuto nella prima guerra mondiale, era stato perseguitato dai fascisti che, al grido di «Morte a Lussu, morte a Lussu», erano entrati a casa sua: egli era deputato e gridava per farsi udire almeno dai vicini che potessero poi testimoniare che avrebbe ucciso il primo che fosse entrato nella sua casa, infatti sparò e uccise un giovane aggressore che entrava dalla finestra. Questi drammatici fatti accaddero a Cagliari nell’ottobre del 1926 e Lussu non potendo essere condannato al carcere poiché si trattava di legittima difesa, fu però inviato al confino nell’isola di Lipari...
(continua in libreria)
L'AUTRICE - Marina Addis Saba è nata a Sassari. Dopo la laurea in Lettere moderne a Roma, è rientrata in Sardegna e ha iniziato i suoi studi sul fascismo. In seguito al suo impegno femminista si è specializzata in Storia delle Donne. È stata Visiting Professor a Madrid, a Barcellona e a Parigi. Ha concluso la sua carriera nella facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università degli studi di Sassari. Con la sua biografia di Anna Kuliscioff (1993) ha vinto il premio Tobagi. Tra i suoi ultimi saggi: Partigiane. Le donne nella Resistenza (1998), La scelta. Ragazze partigiane e ragazze di Salò (2005) e La farnesina. Giulia Farnese e papa Borgia (2010).