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Culture
La conoscenza è potere, 100 anni dalla nascita di don Milani
Don Milani

Possiamo immaginare parole simili oggi dagli stranieri immigrati che fin dai primi gradi della scuola italiana si aspettano di imparare la lingua che li renda cittadini, ma anche da tutti i figli delle nuove povertà, anzitutto di quelle culturali. L’ambiente familiare di nascita e di crescita decide spesso dell’acculturazione linguistica di base, ma non può essere questa l'ultima parola: la scuola ha il compito di garantire a tutti la possibilità di raggiungere la parità sociale, nelle specifiche attitudini che i diversi indirizzi promuoveranno, di consentire lo sviluppo di una conoscenza che sia via privilegiata per la cittadinanza e la democrazia.

Senza parole, senza pensiero

Se non abbiamo le parole, non abbiamo il concetto e la categoria del pensiero corrispondente, ci insegnano i linguisti, così ne deduciamo irrimediabilmente un impoverimento delle nostre facoltà intellettive. E al tempo stesso, se abbiamo le parole e nessun altro le conosce, il nostro pensiero non può essere trasmesso, condiviso, discusso.

L’incomunicabilità diventa allora il dramma esistenziale dell’individuo prima, e la condanna sociale e politica poi. Nell’incomunicabilità si spegne ogni possibile confronto e scambio, la possibilità di scoprire armonie e differenze, in definitiva vien meno la possibilità di una crescita o di un cambiamento collettivi. Insegnare le parole per indagare e dire di sé rappresenta un insegnamento democratico anche perché salva le specificità degli individui.

Dalle lingue il discorso oggi andrebbe esteso ai linguaggi, primo fra tutti quello della tecnologia, dove il così detto digital divide segna una frontiera nell’esercizio della cittadinanza: chi non ha dimestichezza con il computer, chi non ha abilità e avvertenza nella navigazione in rete e, tra un attimo, nell'approccio all'intelligenza artificiale, resta escluso. Dalla comunicazione, dall'istruzione, dal lavoro, dalla socialità: dal mondo. 

A scuola, perché ne vale la pena

Alla scuola spetta allora di uscire dall'autoreferenzialità che le veniva imputata già allora dai ragazzi di Barbiana e che ancora oggi sembrano imputarle gli studenti quando lamentano di non riuscire a farsi conoscere e comprendere dai loro insegnanti, a tenere insieme i pezzi delle loro esistenza, dentro e fuori dalla scuola, a riunirle in un orizzonte di comprensibilità. “È l’aspetto più sconcertante della vostra scuola: vive fine a se stessa”; “voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione”, accusano i ragazzi di don Milani. Ma la scuola deve essere - e spesso è - il contrario.

Non deve fare sconti, ma dare e chiedere qualità perché - lo sapevano i ragazzi che per don Lorenzo avevano una sorta di timore reverenziale e si può dirlo ai nostri ragazzi oggi - la fatica è accettabile se ne vale la pena, se si hanno interlocutori all'altezza del nome di 'maestri', o che almeno si impegnino per esserlo. Se andare a scuola interessa la vita, comprende il suo orizzonte e aiuta a progettarne di nuovi, se rappresenta una palestra di pensiero critico e di cittadinanza. Se traduce e realizza il celebre motto di don Milani: “I care”, “mi prendo cura”.

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