Culture

L'achitettura fascista non esiste. Roma da Mussolini a Virginia Raggi

Di Gaetano di Thiène SCATIGNA MINGHETTI

La Roma di Virginia Raggi? Stando alle cronache che appaiono sui mass-media con scansione quasi quotidiana è una debacle totale su tutti i fronti. Un disastro irredimibile in ogni espressione della vita cittadina della Caput Mundi che, per il suo ruolo di Centro del Cattolicesimo universale, meriterebbe davvero un trattamento, un'attenzione particolare.

Subito, però, la mente corre all'indietro nel tempo, a quasi un secolo fa, allorchè la Capitale, per alcuni versi ancora papalina, con l'arrivo al potere, dopo la marcia su Roma, del 28 ottobre 1922, di Benito Mussolini, subisce una terapia d'urto perchè la città possa rapidamente modernizzarsi e assumere quel ruolo di guida tra le capitali del mondo che le proveniva, secondo le intenzioni del capo del partito fascista, dall'eredità augustea ed imperiale.

L'occasione per compiere un parallelo franco ma, al tempo stesso, impietoso, tra la città di ieri e la realtà mortificante di oggi, viene fornita dallo studio compiuto da Paolo Sidoni, La Roma di Mussolini, Roma, Newton Compton Editori, 2019, un saggio molto articolato e corposo che si presenta, sin dalla “prima” di copertina, come “la più completa ricostruzione delle trasformazioni della città durante il regime fascista”.

L'Autore, un saggista, documentarista e ricercatore storico, che ha collaborato con l'Istituto Luce e, ancora, con l'Istituto di Studi Storici Europei, è riuscito appieno nel proprio intento fornendo altresì al lettore, in proiezione sintetica, una epitome storica del fascismo italiano, confortata da una doviziosa sequenza di documenti, quasi tutti di prima mano, e sorretta da un apparato fotografico inedito che accattiva ed intriga.

Si assiste, in tal modo, ad una sfilata, direi inarrestabile, di personaggi, sia in veste di protagonisti che di comprimari, i quali hanno “fatto”, non soltanto la storia urbanistica ed architettonica dell'Urbe, bensì anche quella dell'Italia intera e dell'Europa che, nel bene nel male, ne hanno determinato i destini e il futuro, sia immediato che a spettro largo e complesso.

Si avvicendano così sotto gli occhi del lettore, in primis, architetti, artisti, urbanisti che rispondono ai nomi di Marcello Piacentini, Arnaldo Foschini, Armando Brasini, Cesare Bazzani ai quali vanno affiancati quelli di Adalberto Libera, Pier Luigi Nervi, Angiolo Mazzoni, Luigi Piccinato, che hanno reso Roma e l'Italia il privilegiato, inimitabile palcoscenico del fascismo sia nel Vecchio Continente sia nell'intero mondo, presentando una commedia teatrica ancora oggi dai tratti realistici ma, talvolta, dissacrante.

Ma il volume di Paolo Sidoni non è semplicemente la storia urbanistica ed architettonica della Città Eterna. Il solo pensarlo, e, quindi, affermarlo, sarebbe certamente illegittimo e limitativo. Lo studio va molto al di là delle apparenze immediate e si addentra nei gangli più vitali del mondo della politica, inoltrandosi nella sfera del sociale e nell'ambito del costume. Si presenta, ad una analisi più approfondita, come uno studio composito degli innumeri aspetti nei quali si esplica l'immagine della Capitale italiana che, nel corso dei millenni, ha visto stratificarsi avvenimenti e circostanze in una sorta di parossistico, incalzante susseguirsi di cause e concause che le hanno conferito l'impronta odierna che ciascuno è aduso, da sempre, a riconoscerne i segni.

Ma, per quello che riguarda il discorso concernente la città di Roma e le molteplici opere che Mussolini, nella propria concezione urbanistica ed architettonica, desiderò fortemente offrire a questo straordinario, incredibile agglomerato, ci si può chiedere, insieme con Paolo Sidoni, se sia “esistita una architettura fascista... bisogna rispondere no...

“Le predilezioni estetiche di Mussolini sono state in qualche modo dettate dal corso degli eventi politici... senza tuttavia privilegiare alcuna specifica corrente artistica e architettonica” (p. 8).

Tanto risulta vero che, per la realizzazione di tutti gli edifici commissionati ai suoi progettisti, si avvalse dell'azione di certuni personaggi, cui conferì la carica di governatori della Città, che non potevano, non dovevano annoverare tra le “voci” del proprio curriculum esistenziale ed operativo alcun “titolo” di specifica rilevanza di carattere politico e, soprattutto, partitico. In tal modo, furono Governatori della città di Roma alcuni esponenti delle casate storiche che, nel lungo volgere dei secoli, a iniziare sin dalla più profonda epoca mediovale e pur tra rivalità, faide, gelosie, battaglie sanguinose ed elezioni di papi amici o di pontefici avversari, avevano fornito quel crisma indelebile che ancora oggi ne interpreta i tratti e la vita non soltanto della Chiesa ma, nel contempo, dell'Urbe stessa che con Essa si identificava in una sorta di osmosi simbiotica, che ne ha fatto, in perenne continuità, quell'unicum urbanistico ed architettonico che non possiede l'eguale nell'intero orbe terracqueo.

Mussolini era, in pienezza d'intenti, cosciente di questa superna valenza della Città e, così, per Essa pretendeva l'eccellenza assoluta sia nel momento progettuale che durante il processo di realizzazione esecutiva, sempre all'insegna dell'intelligente attenzione verso la grandezza monumentale della tradizione degli antichi Quiriti e imperiale.

Nel saggio, Paolo Sidoni rende conto, con puntualità ed accortezza di linguaggio, dei concetti, dei desiderata e delle aspirazioni cui tendeva il capo del regime fascista, tanto che nel paragrafo recante come titolo, sottilmente ironico, “Di principe in principe”, ha raggrumato l'avvicendarsi sullo scranno sommitale del Campidoglio la teoria dei Governatori della Caput Mundi, espressione, starei per dire, tangibile, della sensibilità esperienziale, indispensabile per la creazione della nuova Roma del XX secolo.

È stato Fabrizio Sarazani (1905 - 1987), il conte Fabrizio Sarazani -nobiltà papalina, aristocrazia nera, in altri termini-, il più grande “romanista” della seconda metà del Novecento, colui che coadiuvò il finanziere del regime, il conte Giuseppe Volpi di Misurata (1877 - 1947), nell'azione di malleveria genetica della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica che, dal 1932, trasformò la Serenissima città di Venezia, in un brillantissimo polo, di livello mondiale, di attrazione turistica e mondana.

Fabrizio Sarazani, nel suo “approssimativo saggio”, come egli stesso lo definisce, intitolato Alla corte del Duce. L' aristocrazia romana e il fascismo, proposto in volume, nel 2015, con prefazione di Francesco Perfetti, afferma “che Mussolini, al momento in cui decise, nell'agosto del 1925, l'istituzione in Campidoglio del Governatorato di Roma, … indirizzò la sua scelta e la sua predilezione ai rappresentanti dell'antico patriziato romano. Voleva, cioè, che in Campidoglio la responsabilità amministrativa fosse affidata a gentiluomini di provato onore che ispirassero sicura fiducia ai romani. Nobiltà del cognome popolare, rettitudine nella vita privata e nel disinteresse del 'galantomismo' “ (p. 75). Così, vengono passati in rassegna, nelle sapide pagine di Sarazani, i nomi, i volti e le “gesta” di Ludovico Spada Veralli Potenziani, Francesco Boncompagni Ludovisi “Piero Colonna, il profilo di un antico romano”; Gian Giacomo Borghese, ultimo di questi principi-governatori le cui casate, grazie al capo del fascismo, avevano ri-assunto la propria funzione politica e sociale che era stata, per secoli, di loro esclusiva pertinenza.

Quasi in prospettiva, quasi in una sorta di visione sinottica, fanno eco a queste pagine di Sarazani quelle di Sidoni che, forse con un pizzico di stimolante, subliminale “cattiveria”, sonda il dopo-Mussolini, il sequel evolutivo che rende edotto il lettore sul prosieguo della storia, sul “come poi sia andata a finire” nell'Italia della Repubblica. Si ritrova la maggior parte dei nomi, sempre con il suggello del camaleontismo, connaturato al D N A italico, in un perenne riciclo, in un vichiano “eterno ritorno” che ha trovato il proprio aristarco scannabue, di Giuseppe Baretti, ne I moribondi di Palazzo Carignano (1862), del barone di Moliterno Lucano, Ferdinando Petruccelli della Gattina (1815 - 1890) che, con una satira raffinata e perspicace, denuncia il vezzo tutto italico di adattamento alla greppia del potere, tipico degli intramontabili voltagabbana della Penisola che, per il becero tornaconto al quale erano, e sono inchiodati, fin dal tempo dei “cortegiani” rinascimentali, cambiano opinioni e casacca con estrema disnvoltura e spensierata nonchalance.


Ceglie Messapica, 28 – VII – 2020