Culture

Statua della Libertà, il simbolo dell'occidente ha sangue italiano

di Mirko Crocoli

L’AMERICA! Terra promessa. In quei piroscafi ce n’erano a migliaia. Chissà quanti li avrà visti T.D. Lemon Novecento, il leggendario pianista del Virginian, “figlio” legittimo sia (su carta) di Baricco che (su celluloide) di Tornatore. Campani, abruzzesi, pugliesi, siciliani, umbri, lombardi, veneti. Traversate oceaniche da tutta Europa per andare incontro al “nuovo mondo”. E poi il successo. I Kennedy, gli Einstein, i Ford e per noi; i vari Pacino, Sinatra, De Niro, Cuomo, Giuliani, Valentino, Capra, Scorsese, De Palma, Coppola, Carnera, DiMaggio, La Guardia. L’approdo era a Ellis Island, un isolotto bagnato dal fiume Hudson, vera e propria porta d’ingresso e (non per tutti) fine di un incubo. Ad attenderli, stremati, tra la foschia della baia e i severi controlli delle autorità, oltre alla speranza, c’era lei; sontuosa, affascinante, alta 93 metri, Regina dominatrice di Manhattan, posta su una base di granito, visibile a 50 km di distanza, con la mano destra alzata che tiene in pugno la fiaccola della libertà, con la sinistra la dichiarazione d’indipendenza, in testa una corona a sette punte e ai piedi catene spezzate, straordinario simbolo di liberazione degli oppressi dalle tirannie. Una perfetta sintesi di raffigurazioni metaforiche che inneggiano alla democrazia, alla concordia e alla libertà, bene supremo che illumina i due continenti.

Maestosa, idilliaca, è l’icona per antonomasia della città di New York e dell’intera nazione, il regalo della Francia agli Stati Uniti d’America in segno di gratitudine, pace e retaggio delle conquiste della Rivoluzione. E’ stata progettata dal francese Frédéric Auguste Bartholdi e inaugurata con una cerimonia in grande stile il 28 ottobre 1886. Questo dicono le “sacre scritture” bibliografiche moderne, tranne che, in quel capolavoro di inaudita armonia, in realtà scorre "purosangue" italico. Alcuni già lo sapranno, la questione è stata caldeggiata in più occasioni, sia a livello giornalistiche che storico, eppure, mai come in questa circostanza, la locuzione REPETITA IUVANT ha un sapore autentico e il rammemorare, per coloro i quali ignorano, è assai doveroso. E allora facciamolo un nostalgico ed esplicito salto nel passato.

Lo scultore Pio Fedi, nato a Viterbo nel 1815, poi trasferitosi in giovanissima età a Firenze, deve la sua fama principalmente per la splendida creazione artistica il “Ratto di Polissena”, esposta sotto la loggia dei Lanzi nel capoluogo toscano. Nel 1870, sull’onda del successo, egli viene incaricato di creare un’opera dedicata all’allegoria poetica in occasione della ricorrenza del decimo anno dalla scomparsa del drammaturgo Giovan Battista Niccolini. Dopo un anno, il Fedi, chiude il primo bozzetto titolandolo profeticamente “La libertà della poesia”. Passeranno 12 primavere (1883) prima di vederla al fianco del ritratto del poeta pisano, attualmente visitabile presso la sthendhaliana Chiesa di Santa Croce. Una figura femminile in marmo, con lungo drappeggio che le avvolge dolcemente il corpo, alta 4 metri, con una corona in testa a 8 raggi, la mano destra alzata che sorregge delle catene spezzate e la sinistra che stringe una ghirlanda di alloro. In fondo, nel mezzo del basamento, una scritta: A G.B. Niccolini. Questa, molto probabilmente, era l’immagine artistica ideale per Pio Fedi di rappresentare sia la poesia che l’elogio all’eccellente letterato. Stupenda nella sua forma e bellezza e talmente geniale che i due architetti Viollet Le Duc e F.A. Bartholdi ne rimasero letteralmente folgorati. Il primo amava visitare Firenze per scopi artistici, lo faceva spesso in quegli anni, mentre il secondo, Bartholdi, proprio tra il 1870 e 1871, era in Italia alla “corte” di Garibaldi. E’ fortemente plausibile che quest’ultimo si sia incontrato con Pio Fedi, vuoi per la comune appartenenza massonica e vuoi perché l’alsaziano visse a Firenze proprio negli anni in cui l’italiano era alle prese con la bozza in gesso in onore del drammaturgo. Sta di fatto che, di lì a poco, certamente ispirati ed ammaliati dalla futuristica idea di Fedi, Le Duc poi sostituito da Eiffel e soprattutto Bartholdi cominciarono a lavorare al nobile (e poco originale) progetto per gli States. Le date non lasciano scampo; “La libertà della poesia” di Fedi è stata inaugurata nel 1883 mentre la più nota “Statua della libertà” di Bartholdi 3 anni dopo, il 28 ottobre del 1886, in quel di New York.

Ad avvalorare la tesi dello “scopiazzamento” ci pensa lo storico Alessandro Della Casa, il quale ci dispensa di un'altra perla di saggezza, questa sì, sconosciuta ai più. E’ la storia del “bozzetto bis” di Viterbo, non del tutto rivelata al grande pubblico. Nel 1876, il Comune capoluogo dell’Alto Lazio commissiona al famoso scultore l’ideazione e conseguente realizzazione di un monumento da dedicare ai caduti nelle guerre risorgimentali. Una proposta che Fedi accetta a titolo gratuito, tanto è l’amore per la sua città natale. Egli, tuttavia, stava già lavorando da 6 anni al progetto per Niccolini. Stiamo parlando di un’opera (quella per Viterbo) alta nove metri, raffigurante una statua di una donna con drappeggio e mantello, la testa cinta da un elmo, il braccio sinistro lungo il fianco e il braccio destro sollevato, in entrambe le mani le catene spezzate della schiavitù. Una sorta – come afferma Della Casa – “di variazione sul tema della Libertà della Poesia, che Fedi stava edificando in quel periodo, dedicata anch’essa, come si è detto, a un uomo di sentimenti patriottici. Sono quindi palesi le somiglianze con la Statua della Libertà di Bartholdi”.

Tra l’altro – e qui la cosa si fa molto interessante – il “disegno” viterbese (e tale purtroppo rimase - giacchè a causa delle precarie condizioni economiche dell’amministrazione non se ne fece più nulla) - venne inaugurato prima degli altri due: il pomeriggio del 7 maggio del 1876, in piazza del Plebiscito, luogo in cui si sarebbe dovuto collocare, alla presenza di Giuseppe Garibaldi che era in visita nella Tuscia.

Ma i “fotogrammi” fanno molta più chiarezza rispetto alle tante parole scritte o dette, ed è per questo che lasciamo a voi l’attento e minuzioso confronto tra le opere per darvi modo di capire quale sia l’impressionante somiglianza tra quella di Santa Croce - (ripetiamolo) antecedente per data e ideazione - e quella sita nella Liberty Island.

Se, all’epoca dei fatti, ci fosse stata la legge sul plagio e se Fedi avesse trascinato in tribunale l’architetto transalpino, come è solerte uso e costume oggidì, il fiorentino avrebbe avuto non solo le sue ragioni e un cospicuo risarcimento in denaro, ma sicuramente, cosa ben più importante, tolto il merito al furtivo parigino. Ha copiato Bartholdi, non v’è dubbio alcuno e persino con il piacere di farlo, un classico, una beffa da serial killer che lascia gli indizi per svelarci la sua identità, dimostrandocelo dal pezzetto del nome, “Libertà” appunto, volutamente riproposto. E poi catene spezzate, drappeggio, diadema, raggi, fiaccola, braccio alzato, allegoria … e voilà, les jeux sont fait!  

E quella del ladrocinio di idee e non solo (vedasi la Gioconda), è una storia che si è riputata un po’ troppo spesso, da Filoteo Alberini (Orte) per il cinematografo, che arrivò un anno prima dei fratelli Lumière (francesi anch’essi), ma la burocrazia italiana e il tardivo rilascio del brevetto (n. 245032) già all’epoca la fecero da padrona (tipico del sistema “nostrano”) a Antonio Meucci (Firenze) con Alexander Graham Bell per il telefono passando per il sardo (nuorese) Francesco Antonio Broccu, il quale, con tre anni di anticipo (1833) rispetto a Samuel COLT diede alla luce la mitica arma da fuoco a tamburo; il celebre revolver.   

Nel caso del monumento che si affaccia sull’Atlantico c’è inequivocabilmente genio italiano, il che ci dovrebbe inorgoglire all’unisono. E, se è vero come è vero (ben sostenuto dalla vulcanica e pervicace Veronica Gentili nel suo squisito racconto “Gli Immutabili”) che allo “Sliding Doors” non v’è rimedio e che se una cosa deve accadere è inevitabile che accada (o in questa specifica eccezione è, ahinoi, accaduta), che ci sia però almeno l’intenzione di modificare (per quel che si può) il corso del destino.

Come? Far sì che i viterbesi e/o i fiorentini si affratellino e portino al cospetto delle istituzioni romane e newyorkesi, sindaco De Blasio in primis - ennesimo (tanto per cambiare!) Italo americano - una vicenda che merita sia un riconoscimento storico internazionale per il nostro illustre connazionale tosco-laziale e sia di rimarcare la VERITA’ (poiché tale è) all’interno di una delle ricche pagine dei libri scolastici in mano agli studenti statunitensi. Ad onor del vero qualcosa, in tal senso, già si è fatto, ma – a nostro avviso - è sempre troppo poco!