Economia
Astaldi, quegli investimenti sbagliati. Il Venezuela un boccone amaro

Piazza Affari/ Non arrivano commesse da Trump e il Venezuela va in default, così Astaldi deve rafforzare il patrimonio di 400 milioni e il titolo va ko
Di Luca Spoldi
Giornata nera per il titolo Astaldi, che la scorsa settimana aveva già annunciato di avere allo studio un aumento di capitale da 200 milioni ed oggi ha precisato che all’operazione, che sarà lanciata dopo la pubblicazione dei risultati del quarto trimestre 2017, si affiancherà un’emissione di strumenti ibridi equity/debito per ulteriori 200 milioni di euro circa.
Il tutto a fronte di una capitalizzazione che a ieri sera non superava i 303 milioni e che stasera potrebbe ridursi a meno di 200 milioni circa, visto che il titolo è congelato a 2,336 euro per azione, a fronte di un teorico ribasso del 35,7% (ma dal 2 novembre scorso, quando il titolo valeva ancora 6 euro, il crollo supera il 60%). A pesare sui conti della società è la diversificazione estera: mentre dagli Stati Uniti non arriva ancora nessuno dei contratti che si sperava di poter intercettare dopo gli annunci di nuovi investimenti in infrastrutture fatti dal neopresidente Donald Trump, il Venezuela, nei cui confronti Astaldi è esposta per 433 milioni di euro, è stato dichiarato da Standard & Poor’s in stato di default selettivo.
Al gruppo italiano, già impegnato in una cura dimagrante per ridurre il debito, non è rimasta altra soluzione che svalutare la posizione del 53% (230 milioni), riducendo a 203 milioni circa l’esposizione netta. La svalutazione si è abbattuta sull’Ebit trimestrale, riducendolo a poco più di 29 milioni, e sul risultato netto (negativo per quasi 88 milioni). Senza la svalutazione il primo sarebbe risultato pari a oltre 259 milioni (in crescita del 7,1% rispetto al settembre 2016), il secondo sarebbe stato positivo per oltre 68 milioni (+22,8%).
Paolo Astaldi ha già fatto sapere che farà la sua parte e quindi sottoscriverà pro-quota (52,76% attraverso Fin.Ast), mentre non è dato sapere come si comporteranno Fidelity (7,23% del capitale) e i piccoli azionisti (sul mercato è scambiato circa il 39,5% del capitale). Se Paolo, nipote del fondatore del gruppo Sante Astaldi, eletto presidente del gruppo di famiglia nel 2010, non sorride, anche il cugino, Duccio Astaldi, a sua volta presidente di Condotte, quarto gruppo italiano del settore costruzioni con un giro d’affari di oltre 1,3 miliardi lo scorso anno e controllato dal suocero di Duccio (Paolo Bruno), a avuto qualche grattacapo.
Condotte ha infatti preferito finora concentrarsi in Italia, aggiudicandosi appalti importanti in grandi opere tra cui il Mose e numerose tratte della Tav, ma è rimasta coinvolta in varie inchieste. Condotte, poi, nel biennio 2015-2016 ha visto il debito salire (da 398 a 461 milioni), mentre il valore della produzione è risultato in lieve calo (da 1,34 a 1,31 miliardi) così come il risultato operativo (da 76,7 a 46,3 milioni) e l’utile ante imposte (da 17,9 a 9 milioni).
Al confronto Paolo, eletto nel 2010 presidente del proprio gruppo (carica che nessuno della famiglia aveva più ricoperto dal 1994, quando per sottrarsi alla crisi la famiglia aveva preferito fare un passo indietro affidandosi a un manager come Vittorio Di Paola, capace di far crescere il giro d’affari dai 500 miliardi di vecchie lire a oltre 1,8 miliardi di euro) aveva finora fatto meglio facendo salire in 6 anni i ricavi del 67% a 3 miliardi di euro, con un portafoglio ordini di 26 miliardi, di cui 18 miliardi riferiti a lavori già in costruzione.
Peccato che l’indebitamento finanziario netto, arrivato a fine settembre a sfiorare gli 1,4 miliardi, abbia continuato a pesare tanto che il piano strategico 2017-2021, approvato lo scorso aprile, confermava l’intenzione di ridurre il debito (a 99 milioni nel 2018 e a 400 milioni nel 2021) anche ricorrendo a ulteriori dismissioni per circa 500 milioni, dopo aver già ceduto la quota in A4 Holding ad Abertis, la partecipazione nell’impianto idroelettrico cileno di Chacayes a Pacific Hydro Chile e quella nell’ospedale di Santiago del Cile, oltre che il 36,7% di M5 Spa (concessionaria che gestisce la linea 5 di Milano) dello Ferrovie dello Stato.
La prossima ad essere ceduta potrebbe essere il 33% della concessione sul terzo ponte sul Bosforo, che da sola potrebbe valere 200 milioni di euro. Se tutto andrà senza ulteriori intoppi in America Latina, e gli agognati ordini dagli Stati Uniti si concretizzeranno, il giro d’affari dovrebbe salire a 3,6 miliardi circa a fine 2018 e a 4,6 miliardi circa a fine 2021, mentre il portafoglio ordini è visto in calo a 14 miliardi a fine piano, come sono attesi in calo i margini sia a livello di Ebitda (10% circa a fine piano dall’11,4% a fine settembre) sia di Ebit (8% circa).
Un quadro che il mercato sembrava apprezzare fino alla scorsa settimana, poi tutto è precipitato col default del Venezuela e il titolo ha perso il 45% in sole 5 sedute portando a -28,5% la variazione a dodici mesi. E stasera, con un ulteriore crollo del 35%, il bilancio è destinato a peggiorare. Chissà se Duccio a questo punto, vedendo i problemi del cugino Paolo, non penserà di rinviare definitivamente quello sbarco in borsa più volte ventilato l’anno passato ma sul quale è poi calato il silenzio.