Banche, la leva delle commissioni.Così è cambiato il business in 10 anni
BlackRock potrebbe far fare il salto di qualità ad Intesa nell’Am. Tra le altre banche grandi solo Unicredit e Ubi hanno numeri altrettanto importanti
Le trimestrali di inizio 2018 hanno mostrato, finalmente, un recupero di redditività per le banche italiane, tornate sui livelli di dieci anni or sono. Merito certamente della riduzione delle rettifiche sui crediti deteriorati consentito dalla ripresa economica, anche se il Pil italiano resta del 5,5% inferiore a quello che si registrava alla fine del primo trimestre 2008. Ma merito anche del calo dei costi operativi legato alla ristrutturazione in atto nel settore: nel 2017 il numero di sportelli bancari è calato del 5,7%, ovvero del 19,9% rispetto al 2008, e per il 2018 dovrebbe registrarsi un andamento analogo.
Nel complesso in Italia i prestiti del settore bancario a residenti sono pari a circa 1.800 miliardi l’anno, ovvero al 107% del Pil, livello prossimo a quello del 2008 ma di 16 punti inferiori a quello del “picco” del 2012, come ricordato da Banca d’Italia. Rispetto a dieci anni or sono, le banche italiane sono tornate a fare più credito al consumo (ormai dal 2015), mentre i prestiti alle imprese sono rimasti sostanzialmente stabili, sia pure con segnali di riaccelerazione a partire da inizio anno specie per le maggiori imprese manifatturiere. Grazie anche alle operazioni di aggregazione, la redditività è tornata nel complesso al 7% in termini di Roe (Return on equity, ritorno sul capitale), ovvero al 4,1% non tenendo conto delle voci di bilancio straordinarie, comunque il valore più elevato dal 2008 (quando il Roe medio risultò pari al 5,6%).
A fronte di un margine di interessi che continua a perdere colpi (-0,9% nell’ultimo anno) riflettendo il perdurare di tassi d’interesse vicini ai minimi storici, i bilanci degli istituti italiani hanno potuto beneficiare di ulteriori incrementi delle commissioni (+6,3% solo nell’ultimo anno), legati in larga parte al collocamento di prodotti del risparmio gestito.
Così se nel 2008 il margine d’interessi rappresentava il 26,6% delle fonti di redditività degli istituti italiani e le commissioni il 12,2%, a fine 2017 essi pesavano rispettivamente il 16,6% e il 13%. Non stupisce dunque che i grandi gruppi italiani abbiano da tempo avviato ciascuno un proprio “cantiere” proprio per quanto riguarda le attività di risparmio gestito. Unicredit dopo la cessione ad Amundi per 3,8 miliardi delle attività di Pioneer e la sottoscrizione di una partnership distributiva in Italia, Germania e Austria, ha visto la controllata FinecoBank ottenere dalla Central Bank of Ireland l’autorizzazione a svolgere l’attività di gestione del risparmio e potrà dunque proporre fondi di fondi sfruttando partnership strategiche con una pluralità di gestori internazionali.
Intesa Sanpaolo, al contrario, dopo aver già siglato una partnership con Intrum Iustitia per la gestione dei crediti deteriorati, potrebbe a breve cementare l’alleanza con BlackRock (già socia al 5% dell’istituto guidato da Carlo Messina) cedendo al gruppo americano una quota attorno al 10% di Eurizon. Eurizon è ad oggi il secondo player italiano nell’asset management, con masse in gestione per 313 miliardi a fine aprile dietro proprio ad Amundi (207 miliardi), ma ha l’obiettivo di salire a quota 400 miliardi entro il 2021. BlackRock alla stessa data risultava gestire in Italia un patrimonio di quasi 74 miliardi di euro. Tra le altre banche “sistemiche” tricolori solo Ubi Banca (60,5 miliardi di masse gestite), che da anni vanta una partnership industriale con l’americana Prudential Financial e dove di recente è sbarcato come responsabile area commerciale l’ex Credit Suisse Andrea Sanguinetto, può aspirare ad ottenere risultati paragonabili a Unicredit e Intesa Sanpaolo.
Molto più distanti seguono il Credito Emiliano (meno di 23 miliardi di masse gestite) e Banco Bpm (circa 14,5 miliardi di patrimonio in gestione), con Mediobanca (circa 11 miliardi) e Iccrea (meno di 8 miliardi) davanti a Mps (poco più di 6 miliardi) e Bper Banca (meno di 4 miliardi). Numeri che a differenza delle prime tre difficilmente potranno portare, anche in futuro, a qualcosa di più che a semplici accordi distributivi sul mercato italiano, salvo che nel frattempo non intervenga un nuovo giro di “risiko” del settore bancario italiano a rimescolare le carte in tavola.
Luca Spoldi