Economia
Banche Venete, le aziende "finite sotto la valanga". Le colpe delle Authority
E la politica, dopo aver cavalcato il crack di BpVi e Veneto Banca in campagna elettorale, ora tace. I debitori illustri sono centinaia, la sola Sga...
Di Luca Spoldi
e Andrea Deugeni
Da sempre nel mondo del business le situazioni di crisi di un’azienda possono rivelarsi un’opportunità d’investimento per altri soggetti, a patto che il business sia sostanzialmente sano e che la proprietà sia disposta a fare un passo indietro. A volte però la crisi non è dovuta tanto ad errori dell’imprenditore quanto a crisi di fornitori o finanziatori che, non monitorate per tempo dalle autorità di vigilanza, hanno finito col travolgere l’azienda.
Non sfugge alla regola Ferrarini, gruppo alimentare emiliano leader italiano nel settore degli insaccati (in particolare prosciutto cotto e salumi), che a breve dovrebbe vedere Italmobiliare e il fondo QuattroR rilevare il controllo in cambio di un investimento da 100 milioni tra acquisto di una quota direttamente dagli attuali proprietari e sottoscrizione di un aumento di capitale riservato che servirà a ridurre l’indebitamento (250 milioni a fronte di 335 milioni di fatturato e 29,5 milioni di Ebitda).
A differenza di concorrenti come Parmacotto, passata di mano lo scorso aprile dopo un periodo di amministrazione controllate avendo sfiorato il fallimento per un debito, 100 milioni di euro, nettamente sproporzionato rispetto al fatturato (58 milioni di euro lo scorso anno) e all’Ebitda (dichiarato pari a circa l’8% del fatturato, dunque attorno ai 4,7 milioni), Ferrarini era finora riuscita a mantenere in equilibrio i rapporti tra fatturato, Ebitda e debito, ma ha finito col ritrovarsi coinvolta nella crisi delle ex popolari venete: alla Società di gestione delle attività Spa (Sga), la “bad bank” che gestisce gli asset di BpVi e Veneto Banca non acquistati da Intesa Sanpaolo, dovrebbero fare capo circa 130 milioni di debito di Ferrarini, ossia più della metà dell’intero indebitamento.
Ma quali sono le altre “vittime” della crisi delle due ex Popolari, crisi cavalcata incampagna elettorale dai partiti di opposizione della precedente legislatura, Lega e M5S, per attaccare il Pd e su cui ora invece Matteo Salvini e Luigi Di Maio tacciono, mentre la valanga nordestina continua a sortire i suoi effetti sul tessuto industriale italiano e sui lavoratori?
Tenendo presente che a Sga sono state girate, come recentemente dichiarato dal presidente Alessandro Rivera, 125 mila posizioni per un valore lordo di 19,2 miliardi, di cui metà sono Npl (sofferenze) e la parte restante sono Utp (inadempienze probabili) e Past due (scaduti), essendo rimaste esclusi quei crediti collegati a “operazioni baciate”, oggetto di numerosi contenziosi legali e che sono dunque rimasti in capo agli istituti in Lca (liquidazione coatta amministrativa), sarebbero almeno 25 mila le aziende “incagliate” ed in cerca di nuovi finanziamenti. Per loro Sga ha concluso nei mesi scorsi un accordo con Intesa Sanpaolo che offrirà un servizio di “front desk”.
In sostanza, Sga utilizzerà le filiali Intesa Sanpaolo ex Bpvi ed ex Veneto Banca per valutare volta per volta se e a chi concedere nuovo credito per riuscire a ristrutturare la posizione debitoria. In questa situazione potrebbero esservi alcuni dei grandi debitori i cui nomi erano circolati già alla fine dello scorso anno, come Mariella Burani Fashion Group, Vimet (azienda orafa di Vicenza dichiarata fallita nel marzo dello scorso anno con debiti per 150 milioni, 43 milioni dei quali nei confronti di BpVi), la Champions Re dei calciatori Vincenzo Iaquinta, Sebastian Giovinco, Nicola Amoruso e Matteo Guardalben, ma anche Luca Parnasi (l’immobiliarista romano implicato nella vicenda del nuovo stadio della As Roma), o l’ex presidente del Palermo calcio, Maurizio Zamparini.
E poi ancora: la Nsfi srl, ossia l’ex Lujan Spa, holding inizialmente facente capo alla Finnat dei Nattino il cui controllo vene poi rilevato dall’imprenditore romano ed ex candidato sindaco di Roma Alfio Marchini (che attraverso essa deteneva quote di partecipazione in Methorios Capital, il “salottino buono” romano finito a sua volta in crisi), la Tirrenia poi ceduta nel 2012 alla Cin - Compagnia italiana di navigazione, a sua volta rilevata nel 2015 dall’armatore napoletano Vincenzo Onorato (già socio al 40%), il Ghirlandaio UK, l’immobiliarista di Aversa Giuseppe Statuto, la catena Boscolo, la Lotto Sport, storica società di calzature sportive rilevata nel 1999 da Andrea Tomat ma con 71 milioni di debiti a fronte di un fatturato di circa 281 milioni, la Logan Srl del gruppo Batacchi, l’immobiliare Moscova 38 che fa capo a Roberto Bettega e il gruppo Stefanel.
Per completare l’elenco dei “grandi debitori” che forse non si troverebbero in una situazione a dir poco scomoda se Banca d’Italia e Consob fossero riuscite per tempo a cogliere i segnali della crisi, magari coordinando meglio la loro attività come prevede l’accordo appena siglato dal neo presidente di Consob Mario Nava e dal riconfermato governatore di Banca d’Italia, Ignazio Visco, vi sono infine Alfonso Dolce (fratello del più celebre stilista Domenico Dolce), con la sua Terra Gallurese, il banchiere Pietro D’Aguì, il gruppo immobiliare che fa capo all’ex onorevole di Scelta Civica, Salvatore Matarrese (eletto qualche settimana fa alla presidenza dell’Osservatorio Banche – Imprese della Regione Puglia), e l’imprenditore orafo di Thiene Gino Zoccai, condannato lo scorso anno per bancarotta fraudolenta per il fallimento da 500 milioni di euro della compagnia aerea Volare, da lui promossa e diretta.
Ancora un caso di sofferenza finanziaria legato al crack delle Popolari Venete non meno importante è quello Pasta Zara: la società trevigiana, appesantita da debiti per 241 milioni di euro (73 milioni ottenuti dalle sole due banche nordestine), ha chiuso lo scorso anno con una perdita di 25,7 milioni in parte legata alla svalutazione delle partecipazioni detenute in Bpvi e Veneto Banca. Proprio il calo del patrimonio netto a 77,3 milioni legato a tali svlutazioni ha fatto superare il covenant patrimonio netto/debito finanziario netto (di poco inferiore ai 200 milioni a fine 2017), portando all’apertura di trattative con le banche (verso le quali il pastificio è esposto complessivamente per 128 milioni).
Ottenuto il concordato preventivo “in bianco” dal Tribunale di Treviso, Pasta Zara, partecipata con quote di poco superiori all’11% ciascuna dalla Simest di Cassa depositi e prestiti e dalla finanziaria regionale Friulia (ma la cui quota di controllo, appartenente alla famiglia Bragagnolo, sarebbe stata girata in pegno a Banof China), ha ora tempo fino al prossimo 8 ottobre per predisporre un piano industriale e un progetto finanziario per ristrutturare l’esposizione verso i creditori. Insomma: spento il clamore del “crack” delle due ex popolari venete, la lista di situazioni aziendali di crisi ad esso collegata è ancora corposa ed i tempi per cercare di uscirne appaiono medio-lunghi.
Infine, la valanga nordestina si è abbattuta in casa anche sulla galassia di partecipazioni che fa capo a Finint, la finanziaria di Conegliano Veneto fondata da Enrico Marchi e da Andrea De Vido, socio storico del numero uno di Save (la holding alla quale fa capo l’aeroporto di Venezia), finito in gravi difficoltà economiche, dopo una serie di investimenti sbagliati e debiti personali per circa 100 milionilegati a operazioni con Popolare Etruria finanziati da Veneto Banca (De Vido aveva dato in pegno 26,34% delle azioni di Finint).
Dopo una serie di passaggi societari (che hanno fatto scattare anche un'Opa) in Save, Marchi ha liquidato De Vido, facendo entrare nel capitale della newco in cima alla catena di controllo, Milione, i fondi Deutsche Asset Management e Infravia.