Bonomi,Benetton e altri.Vita da private del vecchio capitalismo
Molte dinastie industriali hanno adottato un modello da private equity, ma c’è chi ha scelto di restare imprenditore. La mappa degli imperi di partecipazioni
Erano tra le dinastie industriali del capitalismo italiano, hanno venduto attività, marchi e brevetti ed hanno preferito investire il ricavato con un’ottica da private equity, cambiando pelle: Bonomi, Fossati, Benetton, Agnelli: l’elenco è lungo e pare il sintomo di una trasformazione silenziosa che si accompagna alla progressiva deindustrializzazione dell’Italia e ad un graduale spostamento della nostra economia verso settori a più elevate marginalità e minore intensità di capitali. Ma non è detto sia l’unica opzione possibile.
I primi a imboccare questa strada furono i Bonomi: Anna Bonomi nel secondo dopoguerra partì come imprenditrice immobiliare realizzando, tra gli altri, il “Pirellone” e sviluppando la prima “città satellite” del capoluogo lombardo, Milano Sanfelice, per poi dar vita negli anni Sessanta ad aziende come Postalmarket, Brioschi, Miralanza, Rimmel, Durbans o Saffa. Ma già pochi anni dopo iniziò a diversificare con partecipazioni in Montedison e La Fondiaria, prima che Mario Schimberni, a capo di Montedison, le sfilasse di mano la cassaforte di famiglia, Bi-Invest.
Il nipote, Andrea Bonomi, attraverso Investindustrial ha rilanciato le sorti della dinastia operando col fondo di private equity Investindustrial, specializzato in investimenti in tre aree principali (consumi, distribuzione e intrattenimento; industria manifatturiera; servizi e concessioni) ma spesso chiamato a rilanciare blasoni un po’ acciaccati del panorama industriale e finanziario tricolore, da Ducati a Bpm, da Castaldi a Gardaland, dal gruppo Coin a Permasteelisa, solo per ricordare alcune operazioni recenti in Italia, dove il gruppo tuttora è attivo in Rcs, Snai, Sergio Rosso, Stroili Oro e Valtur.
Altra famiglia che ha deciso di darsi alla finanza ormai da tempo sono i Fossati: gli eredi di Danilo Fossati, fondatore della Star poi ceduta nel 2006 agli spagnoli di Gallina Blanca per una cifra mai ufficializzata ma che venne stimata in circa 800 milioni, attraverso Findim Grop dopo alcuni investimenti fortunati (piccole quote in Apple, Cattolica Assicurazioni e Banca Lombarda, poi cedute con buone plusvalenze) sono per la verità incappati quasi subito in un “mina” chiamata Telecom Italia.