Economia
Bonomi,Benetton e altri.Vita da private del vecchio capitalismo
Molte dinastie industriali hanno adottato un modello da private equity, ma c’è chi ha scelto di restare imprenditore. La mappa degli imperi di partecipazioni
Per salire al 5% Findim aveva infatti impegnato 804,5 milioni di euro, valore della partecipazione che è stata poi più volte abbattuta generando una minusvalenza complessiva stimabile in quasi 300 milioni. Tornata in utile nel 2015 per 42,5 milioni, Findim aveva alla fine dello scorso anno in cassa molta liquidità (740 milioni) e alcune partecipazioni degne di nota (il 15,5% di Gas Plus, il 2% in F2i).
Sempre più finanza e sempre meno industria è stata la scelta anche dei Benetton: la famiglia di Ponzano Veneto, che dal 2014 ha fatto un passo indietro nella gestione dell’omonimo gruppo di abbigliamento tuttora controllato al 100% tramite Edizione Srl, ha interessi che spaziano dalla ristorazione (59% di Autogrill, mentre il 50,1% di World Duty Free, nato da uno scorporo dalla stessa Autogrill, è stato ceduto lo scorso anno alla svizzera Dufry per 1,3 miliardi di euro, in linea coi valori di libro) all’immobiliare (100% di Maccarese, acquisita per 93 miliardi di vecchie lire nel 1998), dai media (piccole partecipazioni in Rcs, Il Sole 24 Ore e Caltagirone Editore) alle infrastrutture e servizi (in primis il 43% di Atlantia, ma anche il 32,7% di Eurostazioni e il 96% di Aeroporti di Roma).
Ma è soprattutto con la nuova generazione, rappresentata ad Alessandro Benetton, a capo di 21 Investimenti (oggi 21 Partners), che l’anima da private equity si manifesta appieno. Dopo oltre 80 investimenti completati, tra cui The Space (cinema multisala),Manutencoop (facility management), Gardaland (intrattenimento) Sisal (intrattenimento) e Trudi (largo consumo), il gruppo mantiene oggi in Italia partecipazioni, tra gli altri, in Forno d'Asolo (prodotti da forno surgelati), Farnese Vini (produzione e distribuzione di vini italiani), Ethical Coffee Company (caffè in capsule), Pittarosso (calzature), Assicom (recupero crediti), Sirti (reti di telecomunicazioni) e Stroili Oro (oreficeria), oltre ad essere attivo in Francia e in Polonia.
Una strada simile è stata intrapresa anche dagli eredi Agnelli, che con Exor di fatto già da tempo adottano un approccio da private equity visto che la finanziaria lussemburghese dopo la vendita (con una plusvalenza di 722 milioni) del gruppo immobiliare Cushman & Wakefield, controllano oltre al 29,15% di Fiat Chrysler Automobiles (44,27% dei diritti di voto), al 26,92% di Cnh Industrial (39,94% dei diritti di voto) e al 22,91% di Ferrari (32,75% dei diritti di voto), importanti partecipazioni da Partner Re (100%) all’Economist (43,4%, ma con diritti di voto limitati al 20%), da Walltech (14,01%) a Banca Leonardo (16,51%), oltre al 63,77% di Juventus Fc.
Ricchi di liquidità in cerca di buoni investimenti, ma certamente non in ottica industriale, sono poi vale i Bulgari, i Loro Piana, i Merloni, i De’ Longhi e i Pesenti, tutti tentati dall’adottare un approccio più finanziario che industriale per il loro futuro, ma non è detto che questa sia l’unica opzione. Tra i pochi controcorrente si nota ad esempio il gruppo Gavio, che dopo aver ceduto le attività cilene ad Atlantia e la quota in Impregilo a Salini ha reinvestito il ricavato in infrastrutture italiane come la Torino Savona (rilevata da Atlantia per 233 milioni), la Tem e la Brebemi ( 300 milioni) e la Centropadane (301 milioni).