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Economia
Brexit, Dublino si prepara a soffiare le banche alla City

di Andrea Deugeni
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@andreadeugeni

Il governatore della Banca d'Inghilterra Mark Carney lo aveva fatto capire molto chiaramente: in caso di Brexit, alcune banche di base nella City sono pronte a dar seguito i piani di emergenza preparati da tempo per spostare attività e posti di lavoro. Destinazione: Irlanda (mentre anche Francoforte e Parigi corteggiano gli istituti della City). E così, guardandola da Dublino, i cittadini euroscettici di Sua Maestà finiscono per rappresentare un involontario alleato del governo irlandese nella sua strategia di potenziamento del settore finanziario. Programma che mira ad attrarre in terra celtica 10 mila banker nei prossimi quattro anni. Quasi una pugnalata alle spalle per i cugini britannici, se si considera che proprio l'interscambio con la vicina Inghilterra ha consentito all'ex Pigs, finito nel 2010 sotto il protettorato della Troika, di ritrovare la via della crescita e di uscire a dicembre 2013 dal programma di aiuti internazionali da 67,5 miliardi di euro. Un mega-salvagente pari ai due quinti del Pil del Paese.

In Irlanda, il primo ministro Enda Kenny - che aveva sempre dichiarato di tifare per l'integrità dell'Unione, ma che ora non farebbe certo difficoltà a cogliere il lato positivo della Brexit - sta facendo le cose in grande. A marzo dello scorso anno, infatti, il governo ha lanciato un piano per far crescere l'industria dei servizi finanziari che a Dublino, come nel caso del miglio quadrato della City londinese, è concentrata nell'International Financial Services Centre, un distretto, nato nel 1987 nella zona dei Docks, che in poco più di 20 anni è diventato uno dei principali quartieri generali degli hedge fund nel Vecchio Continente. Un'area che ospita le sedi europee di almeno metà delle prime 50 banche e 20 assicurazioni mondiali.  

Da questo hub finanziario che accoglie anche le big della tech-economy come Apple, Google, Facebook e Amazon, per un totale di oltre 500 gruppi che impiegano circa 38 mila lavoratori specializzati, provengono quasi l'8% del Pil del Paese (poco più di 18 miliardi) e 2,1 miliardi di gettito che finiscono dritti nelle casse dello scacchiere irlandese.

Come secondo step, il governo ha invitato in madrepatria tutti i banchieri irlandesi impiegati all'estero per illustrare i piani per fare di Dublino, grazie anche a nuovi investimenti infrastrutturali, il leader globale dei servizi finanziari entro il 2020, traendo il massimo dalle sinergie fra hub finanziario e tecnologico e sviluppando cosÏ quell'industria del fintech che rappresenta la frontiera dei moderni sistemi bancario e dei pagamenti. 

Le leve da azionare sono l'intramontabile corporate tax al 12,5%, una manna se confrontata al 35% che grava sui conti delle società Usa e al 24% abbondante della media Ocse, una popolazione demograficamente giovane ed istruita che parla inglese, l'appartenenza all'Ue ma pure, per storia e tradizioni, alla comunità anglo-atlantica e una serie di nuove esenzioni fiscali.

Gli assist per Dublino che arrivano dalla Brexit sono: la revoca del passaporto garantito dal mercato interno alle banche che consente loro di operare in tutta Europa, un freno al trasferimento di quel 15% di cervelli della finanza nato all'estero e che lavora nella City e la forte riduzione di attività, come il mercato europeo dei corporate-bond, di cui Londra è il cuore. Senza contare gli scossoni finanziari di breve periodo (i mercati oggi ne hanno dato un assaggio) e la recessione. Conseguenze che, secondo molti analisti, metteranno a rischio il ruolo della capitale britannica come hub finanziario del Vecchio Continente: oltre il 30% degli scambi di servizi finanziari, infatti, Ë con l'Ue.   

Così, Citigroup ha già trasferito la sede delle proprie attività retail in Irlanda. Credit Suisse ha aperto un trading floor. E Goldman Sachs, Morgan Stanley, BofA, JP Morgan e Wells Fargo sono pronte a seguirle a ruota. Un fuggi-fuggi che, secondo l'organizzazione di categoria CityUK, potrebbe tradursi nell'immediato in una perdita secca di 100 mila posti di lavoro. E Dublino ringrazia.

 

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