Economia
C'era una volta il cemento in Italia. Perché Calta e Pesenti hanno mollato
Anche Caltagirone esce dal business italiano del cemento: mercato troppo frazionato, consumi ancora al lumicino
C'era una volta il settore del cemento italiano, ma di italiano, ormai, è rimasto ben poco dopo che anche Cementir (gruppo Caltagirone) ha deciso di cedere per 315 milioni di euro tutte le sue attività italiane, ossia il 100% di Cementir Italia e controllate Cementir Sacci e Betontir, cui fanno capo 5 impianti di cemento a ciclo completo, 2 centri di macinazione di cemento, la rete di terminali e le centrali di calcestruzzo in Italia, a Italcementi, storico marchio italiano che però la famiglia Pesenti aveva ceduto già nel 2015 al gruppo tedesco Heidelbergcement.
L'uscita da Italcementi era avvenuta dietro pagamento di 1,57 miliardi di euro per il 40% del capitale in mano ai Pesenti, pari a 10,6 euro per azione (stesso prezzo poi offerto nella successiva Opa residuale obbligatoria che portò al delisting del titolo nell'ottobre del 2016) con un premio implicito di quasi il 71% rispetto alle quotazioni di borsa nei tre mesi che precedettero l'annuncio dell'operazione.
A giudicare dalla reazione di Cementir Holding (salita oggi in borsa di oltre il 5,5% a 7,205 euro, con un guadagno del 52,5% rispetto a 12 mesi or sono) anche la cessione delle attività tricolori del gruppo Cementir ha rappresentato un colpo da maestri, visto che, come sottolineano gli analisti di Fidentis (che ha alzato da "hold" a "buy" il giudizio su Cementir Holding, portando il target price da 5,8-6,2 a 8,9-9,3 euro) l'operazione porterà il rapporto debito/Ebitda "al livello di 0,5 volte nel 2018, cosa che lascia spazi per finalizzare nuove acquisizioni in mercati più strategici" di quanto non sia quello italiano, almeno per gli imprenditori tricolori che non posseggono le dimensioni dei grandi colossi mondiali e le relative economie di scala.
Il problema, infatti, pare proprio questo: nonostante un graduale rafforzamento della ripresa anche in Italia (a ritmi che restano peraltro inferiori a quelli medi degli altri paesi dell'eurozona) il mercato resta, come ricordava già lo scorso aprile il figlio di Francesco Gaetano Caltagirone, Francesco Caltagirone Jr, eccessivamente frazionato, con un eccesso strutturale dell'offerta (40 milioni di tonnellate l'anno di capacità produttiva) rispetto alla domanda (stabile sui 19 milioni di tonnellate l'anno) e pertanto con una marginalità inferiore a quella di altri mercati, dove non a caso tutti gli operatori stanno cercando di diversificare.
Un processo, quello della diversificazione sull'estero, già intrapreso da tempo dal gruppo Caltagirone (le attività cedute pesavano già ora solo il 12% circa dei ricavi) ma che richiede tempi lunghi per dispiegare appieno i suoi effetti. Quel che è certo è che rispetto anche solo a due anni fa il panorama dei maggiori produttori di cemento tricolori è profondamente cambiato e il processo sembra destinato a proseguire.
All'epoca oltre Cementir (4,3 milioni di tonnellate di capacità produttiva in Italia, con vendite per 1,71 milioni di tonnellate di cemento) c'erano Italcementi (22 milioni di tonnellate di capacità produttiva in Europa, Italia compresa) e Buzzi Unicem, che a fronte di una capacità produttiva di 9 milioni di tonnellate in Italia aveva prodotto poco meno di 3,7 milioni di tonnellate di cemento, vendendo anche circa 2,6 milioni di tonnellate di calcestruzzo e 1,15 milioni di tonnellate di aggregati. I veri affari i gruppi del cemento li hanno fatti fino a prima della crisi economico-finanziaria del 2008-2009.
Nel 2006, del resto, a fronte di una capacità produttiva di 48 milioni di tonnellate di cemento all'anno, la domanda "tirava" fino a 47 milioni di tonnellate annue. Poi con la crisi, la frenata economica, gli stop and go di molte infrastrutture pubbliche e le multe ai produttori rei secondo l'Antitrust di aver creato un cartello sui prezzi tra il 2011 e il 2016, il mercato del cemento in Italia si è "rotto" e la domanda si è più che dimezzata.
(Segue...)