Carige non come le banche del Pd. Le differenze nei salvataggi di Mps&C
Per le banche “risolte” come Etruria si volle evitare la normativa sui “bail in”,con Mps il mercato non era disposto a concedere altro credito, per le Venete...
L’assordante silenzio della politica sulla vicenda Banca Carige si è interrotto ieri sera quando il governo, al termine di un Consiglio dei ministri straordinario, ha varato un decreto legge per introdurre misure urgenti che permettano alla banca “di accedere a forme di sostegno pubblico della liquidità”.
In particolare il Tesoro garantirà le nuove emissioni obbligazionarie, cosa che potrebbe sbloccare la rinegoziazione del bond subordinato Tier2, su cui al momento l’istituto deve pagare un 16% di interesse annuo, sottoscritto per 320 milioni dallo Schema Volontario del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), ossia dalle principali banche italiane (incidentalmente concorrenti della stessa Banca Carige).
Non solo: il Tesoro garantirà anche eventuali “finanziamenti erogati discrezionalmente dalla Banca d’Italia”, il tutto “in stretto raccordo con le istituzioni comunitarie” e “nel pieno rispetto della normativa in materia di aiuti di stato”. Aiuti di stato che potrebbero, in estrema ratio, tradursi in una ricapitalizzazione precauzionale come già fu nel caso di Mps, sempre che, ovviamente, la Commissione Ue ne ravvisi la necessità e dia il suo benestare.
L’intervento del governo gialloverde ha naturalmente fatto esplodere immediate polemiche in merito all’opportunità o meno di tale mossa e portato a immediati paragoni con quanto è stato fatto in precedenza.
In cosa dunque la soluzione alla crisi di Banca Carige è simile e in cosa diversa rispetto al precedente di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara, poste in “risoluzione” nel novembre 2015, al caso di Mps, nel cui capitale il Tesoro è divenuto azionista di maggioranza col 68% del capitale nella primavera del 2016, piuttosto che a quello delle ex popolari venete Bpvi e Veneto Banca, la cui parte “sana” fu rilevata per 1 euro da Intesa Sanpaolo nel giugno 2017 mentre la parte “a rischio” venne rilevata dalla Sga?
Va ricordato che nel caso di Banca Carige l’intervento dello stato non prevede, per ora, alcun esborso per i contribuenti, avviene a fronte di un istituto che non ha passato gli “stress test” ma risulta pienamente solvibile e ben patrimonializzato dopo l’intervento dello Schema volontario Fitd e dovrebbe fungere da “ponte” per favorire la cessione di 2,5-3,5 miliardi di crediti deteriorati di vario tipo (Npl) da Banca Carige alla Sga, condizione necessaria perché qualche altra banca (Unicredit, Cariparma, Bper Banca e Ubi Banca i nomi più gettonati) possa farsi avanti per rilevare l’istituto ligure e chiudere definitivamente la vicenda.
Quando si ricorse alla “risoluzione” di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara stava invece per entrare in vigore la normativa europea sul “bail in” ossia la direttiva Bddr, tuttora in vigore, che prevede espressamente che una banca in dissesto (come apparivano gli istituti in questione, dopo 1,7 miliardi di euro di perdite e 6 miliardi di crediti deteriorati) dovrebbe essere mantenuta in attività “mediante l’uso di strumenti di risoluzione ricorrendo, per quanto possibile, a fondi privati, attraverso la vendita o la fusione con un acquirente del settore privato o previa svalutazione delle passività dell’ente, ovvero previa conversione del debito in capitale per effettuare una ricapitalizzazione”.
Alla fine al Fondo di risoluzione, pagato dalle altre banche italiane, andò un conto di 5 miliardi, mentre Banca Marche, Banca Etruria e Carichieti furono ceduti a Ubi Banca per 1 euro e Cariferrara finì a Banca Bper, sempre al prezzo simbolico di 1 euro.
Destino differente per Mps: Siena, dopo aver varato 13 miliardi dei euro di aumenti di capitale negli anni precedenti, provò ancora una volta a ricorrere al mercato assistita da Jp Morgan a fine 2016, ma questa volta gli investitori risposero picche. Così lo stato italiano intervenne concordando con la Commissione Ue, dopo una conversione di una serie di prestiti obbligazionari in capitale, una ricapitalizzazione precauzionale che è costata 5,4 miliardi di euro ai contribuenti italiani in cambio di una partecipazione che vale oggi meno di 1,2 miliardi.
(Segue...)
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