Economia

Carige vede la luce alla fine del tunnel, Malacalza con le spalle al muro

Luca Spoldi

L’istituto colloca il bond subordinato Tier 2 dopo il via libera del sistema bancario a sottoscrivere fino a 320 milioni

Banca Carige immobile in borsa dopo una fiammata iniziale, sia pure con forti volumi di scambio, nel giorno in cui l’assemblea dello Schema volontario del Fondo interbancario di tutela dei depositi ha dato il suo via libera alla sottoscrizione, fino circa 320 milioni di euro massimi (secondo alcune indiscrezioni l’importo massimo è stato fissato pari a 318,2 milioni, mentre i rimanenti 1,8 milioni verranno sottoscritti direttamente dal Banco Desio) del bond subordinato tier 2 che l’istituto ligure ha iniziato a offrire oggi per un ammontare massimo di 400 milioni di euro. Il comunicato di Banca Carige, uscito dopo la chiusura di Borsa, ha poi confermato le indiscrezioni su Fondo Interbancario e Banco Desio.

 

Il titolo è rimasto inchiodato per quasi tutta la seduta a 0,0019 euro per poi terminare le contrattazioni a 0,0020 euro mettendo così a segno un progresso del 5,26%. L’intervento delle banche italiane consente di intravedere una luce in fondo al tunnel, ma il tunnel stesso appare ancora lungo e rischia di rivelarsi tortuoso. Così almeno devono aver pensato banche come Credem e Volksbank che si sono sfilate e non parteciperanno al “salvataggio”, un salvataggio che non sarà certo a costo zero, anzi.

 

Il Cda dell’istituto, riunitosi ieri sotto la guida di Pietro Modiano approvando le linee guida del nuovo piano di conservazione del capitale richiesto dalla Bce, ha definito anche le caratteristiche del bond T2 destinato a fare da “ponte” sino all’aumento di capitale da 400 milioni atteso per il mese di aprile 2019. Posto che anche solo i 320 milioni che saranno sottoscritti dal sistema bancario basteranno a far sì che Banca Carige veda ripristinato i requisiti Srep 2018, gli interessi che dovranno essere pagati sono decisamente “di mercato” per non dire esosi: il 13%, ossia 4 punti percentuali più di quanto dovette pagare Mps al Tesoro italiano per la sottoscrizione di 4 miliardi di “Monti/Tremonti bond” nel 2012.

 

La differenza tra allora e oggi è che nel 2012 la Bce “prestava” ancora capitali al sistema bancario europeo (ed italiano) allo 0,75% nominale, ma a fronte di un’inflazione del 3,1% in Italia, dunque le banche (che all’epoca non intervennero) si sarebbero potute finanziare ad un tasso negativo del 2,35% per poi guadagnare il 9% e portare a casa uno spread superiore all’11%, oggi la stessa Bce ha offerto liquidità a tasso zero nominale, l’inflazione è calata allo 0,5% e le banche intervengono lucrando uno spread del 13,5%. La “lezione Mps” è evidentemente servita e questo potrebbe anche giustificare la cautela finora tenuta dai principali azionisti della banca, solo uno dei quali finora (Raffaele Mincione, al 5,43% circa del capitale tramite Pop 12) si è detto pronto a sottoscrivere il bond per 20 milioni di euro.

 

Nulla è finora filtrato né da Gabriele Volpi (che di Banca Carige ha circa il 9,1%) né da Malacalza Investimenti (azionista di riferimento col 27,555%) che però si è dichiarata “contenta dell’azione di risanamento portata in campo dal management e dal consiglio eletti nell’ultima assemblea di Banca Carige” e di augurarsi “che la banca si concentri sul supporto al territorio”. Dalle indiscrezioni rimbalzate sui giornali si è via via fatta più concreta l’ipotesi che il gruppo non sottoscriva il bond, salvo poter intervenire in fase di sottoscrizione dell’aumento di capitale, tanto più che il Fondo interbancario non può per statuto detenere oltre il 50% del capitale di una banca.

 

Delle due l’una: o Malacalza non ha intenzione di sottoscrivere né il bond né l’aumento, anche se l’operazione sarà fortemente diluitiva per chi non vi parteciperà, ma spera che da qui ad aprile qualche gruppo bancario si faccia avanti per rilevare Banca Carige e chiudere così una partita che ha portato più dolori che gioie e per questo evita di scoprire in anticipo le sue carte, o non si capisce perché dovrebbe sottoscrivere in aprile un aumento che servirà a estinguere un prestito contratto a caro prezzo, rinunciando a poter esso stesso godere di una interessante remunerazione, sia pure per pochi mesi (l’esborso complessivo per l’emittente dovrebbe essere di una ventina di milioni se il bond sarà rimborsato in anticipo in primavera, che equivarrebbe ad un onere effettivo tra il 5,5% e il 5,7% circa) e rimanendo esposto al rischio d’impresa.

 

Se Malacalza rischia di trovarsi con le spalle al muro, altri investitori istituzionali sembrano avere meno remore a entrare in partita: il fondo britannico Attestor, già divenuto lo scorso anno l’azionista di controllo (col 68,81%, ceduto da Veneto Banca) di Banca Intermobiliare, avrebbe già fatto sapere di essere interessato all’operazione. Un interesse era stato fatto trapelare negli scorsi giorni anche dal Credit Agricole, che in Italia controlla Cariparma e Friuladria (oltre  che, dallo scorso maggio, alle casse di risparmio di Rimini, Cesena e San Miniato) e chissà che non sia indicativo di un possibile interesse per una futura aggregazione, di cui al momento nessuno ancora parla né a Genova né a Milano ma che appare sempre più inevitabile.