Economia

Dazi, i punti dell'accordo Usa-Cina: soia, petrolio, know how, hitech...

Luca Spoldi

Pechino prova a evitare l’incremento dei dazi promettendo più acquisti di soia e petrolio, Trump chiede pratiche commerciali che tutelino know how e aziende Usa

Riusciranno il presidente cinese Xi Jinping e quello americano Donald Trump a raggiungere un’intesa commerciale entro la scadenza del primo marzo, oltre la quale rischiano di scattare dazi del 25% (rispetto a quelli del 10% attualmente in vigore) su importazioni cinesi negli Stati Uniti per 200 miliardi di dollari? I mercati finanziari di tutto il mondo lo sperano, ma al momento la situazione resta estremamente fluida, avendo finora la delegazione cinese messo sul tavolo solo un pacchetto di concessioni che appaiono modeste agli occhi degli americani.

Pechino è pronta ad effettuare maggiori acquisti di soia e petrolio statunitensi e promette una maggiore apertura della Cina verso i capitali americani nei settori manifatturiero e finanziario. Poiché però Pechino ha alle spalle una storia ricca di promesse infrante, i negoziatori statunitensi per ora non abboccano e anzi ribadiscono punto per punto le loro richieste, pur dichiarando in una nota di apprezzare “la diligenza e la professionalità mostrate durante gli incontri” tenutisi in questi ultimi due giorni “dal vice premier Liu He e dal suo team”.

Ma di cosa hanno parlato i negoziatori americani e cinesi in questi ultimi incontri? Di una vasta gamma di tematiche, tra cui: come le società Usa siano sottoposte a pressioni per trasferire  tecnologia a società cinesi; la necessità di rafforzare la protezione e l’applicazione dei diritti di proprietà intellettuale in Cina; i numerosi ostacoli tariffari e non tariffari incontrati dalle società statunitensi in Cina; i danni derivanti da furti informatici in Cina di proprietà commerciali Usa.

E poi ancora: di come le forze che distorcono il mercato, comprese le sovvenzioni e le imprese di proprietà statale, possano portare a capacità in eccesso; della necessità di rimuovere le barriere e le tariffe di mercato che limitano le vendite di prodotti, servizi e generi agricoli americani alla Cina; del ruolo delle valute nei rapporti commerciali tra Stati Uniti e Cina. Gli uomini di Trump hanno poi ribadito la necessità di ridurre “l’enorme e crescente deficit commerciale che gli Stati Uniti hanno con la Cina”.

Un deficit che nei primi 10 mesi del 2018, secondo gli ultimi dati diffusi dal Census Bureau americano, è arrivato a sfiorare i 344,5 miliardi (contro i neppure 310 miliardi dei primi 10 mesi del 2017), con deficit su base mensile che, nonostante le misure protezionistiche già varate da Trump, sono saliti dai 36 miliardi scarsi di gennaio agli oltre 43 miliari di ottobre (nel 2017 non si erano superati i 35,5 miliardi di deficit mensile). Anche per questo “l’acquisto di prodotti degli Stati Uniti da parte della Cina da parte dei nostri agricoltori, allevatori, produttori e imprese” è ritenuto dagli americani “una parte fondamentale dei negoziati”.

Fondamentale ma non sufficiente: Trump già in campagna elettorale aveva più volte criticato non solo l’ammontare del deficit commerciale in sé, ma anche le pratiche commerciali cinesi. Pechino, secondo i risultati di un’indagine condotta due anni fa dall’avvocato repubblicano Robert Lighthizer (già vice rappresentante commerciale statunitense sotto Ronald Reagan nel 1985, dal 2017 rappresentante commerciale statunitense sotto lo stesso Trump), utilizza restrizioni alle proprietà straniere, inclusi i requisiti per avviare joint venture, per costringere le aziende Usa a trasferire la propria tecnologia e know how alle società cinesi.

Pratiche che la Cina nega ricordando semmai il varo di una serie di riforme che dovrebbero rendere più semplice per aziende e capitali stranieri accedere al mercato cinese e vietare ogni mezzo amministrativo “teso a obbligare il trasferimento tecnologico”. Poiché però “nonostante le recenti riforme” il sistema giudiziario di Pechino resta pesantemente sottoposto a controlli tra cui quelli di “comitati giudiziari di tribunale guidati dai presidenti di corte” che “hanno ancora il potere di esaminare e approvare le decisioni in casi complessi o sensibili” come ha segnalato la commissione esecutiva sulla Cina presieduta dal senatore repubblicano Mario Rubio, Washington stenta a fidarsi.

Ultimo ma non meno importante, resta il tema della concorrenza sleale dovuta al sostegno pubblico che Pechino continua a offrire alle sue imprese, in particolare nel settore aerospaziale, strategico per un grande importatore netto come gli Stati Uniti visto che è una delle poche voci attive della propria bilancia commerciale. La Cina promette di ridurre gli aiuti di stato, ma la vera sfida non sarà tanto nel concludere positivamente la fase di trattative ma più avanti, quando si passerà alla fase di applicazione. Anche per questo per gli analisti Trump potrebbe essere tentato dal non chiudere subito un accordo e tenere Pechino ancora sotto pressione, così da vedere concretamente applicate le tante promesse che Xi Jinping gli ha fatto.