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Economia
Ex Ilva, ambiente svenduto tra decreti salvifici e difese geniali. La storia infinita dell'acciaieria di Taranto

Ex Ilva e il processo "Ambiente svenduto" 

Il 3 settembre, la sezione distaccata di Taranto della Corte d’Assise d’Appello di Lecce, ha annullato la sentenza di primo grado dalla Corte d’Assise di Taranto - nell’ambito del processo “Ambiente svenduto” per il disastro ambientale cagionato dallo stabilimento siderurgico ILVA - e trasferito gli atti alla Procura di Potenza, competente per il procedimenti penali che riguardano magistrati degli uffici giudiziari di Taranto.  In primo grado, nel maggio 2021 erano state condannate 26 persone, tra le quali gli ex proprietari e amministratori dell’acciaieria Fabio e Nicola Riva, l’ex presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola e l’ex presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido.

Un processo lungo 33 capi di imputazione, 332 udienze, 200 ordinanze per dimostrare la mala gestione dello stabilimento siderurgico di Taranto da parte dei vertici di ILVA S.p.A, Riva Fire S.p.A. e Riva Forni Elettrici S.p.A. e degli amministratori locali negli anni avvicendatisi.  Una gestione illegale consistita, tra l’altro, nell’omesso adeguamento ai sistemi minimi di ambientalizzazione e sicurezza per ovviare alle problematiche di cui avevano piena consapevolezza sin dal 1995, data di realizzazione della consulenza Montgomery-Watson, che il Gruppo aveva commissionato in occasione dell’acquisizione dello stabilimento, e hanno messo così in pericolo – concreto – la vita e l’integrità fisica dei lavoratori dello stesso stabilimento, la vita e l’integrità fisica degli abitanti del quartiere Tamburi, la vita e l’integrità fisica dei cittadini di Taranto. 

Danni alla vita e all'integrità fisica che in molti casi si sono concretizzati: dagli omicidi colposi, alla mortalità interna ed esterna per tumori, alla presenza di diossina nel latte materno.  Modalità gestionali che sono andate molto oltre le scelte meramente industriali, coinvolgendo a vari livelli tutte le autorità, locali e no, investite di poteri autorizzatori e/o di controllo nei confronti dello stabilimento stesso.  

Nella vicenda ILVA, è emerso chiaramente che gli imputati, agendo in associazione tra loro, avevano come unico obiettivo il profitto e la produzione, ignorando beni costituzionalmente tutelati come l'ambiente, la salute dei cittadini e la sicurezza dei lavoratori. Le prove raccolte mostrano che i dirigenti e i fiduciari dello stabilimento erano interessati solo a massimizzare la produzione per ottenere vantaggi personali e avanzamenti di carriera. Questa struttura gerarchica premiava i risultati produttivi, dimostrando l'esistenza di un disegno criminoso volto a violare la legge per perseguire esclusivamente la produzione, per un periodo di diciassette anni.

Così come nel caso Eternit – a carico di Schmidheiny Stephan Ernst, ultimo proprietario dello stabilimento di Casale Monferrato, oggi condannato a dodici anni di reclusione per omicidio colposo plurimo (derubricato da doloro a colposo) derivante da contaminazione da polveri di amianto  – anche nel caso Ilva, la pubblica accusa ha ipotizzato una imputazione – tra le altre - per disastro ambientale comprendendo ogni fenomeno derivante da immissioni tossiche che incidono sull’ecosistema e sulla qualità dell’aria respirabile, determinando imponenti processi di deterioramento di lunga e lunghissima durata dell’habitat umano. 

Un reato, molto grave, su cui pende la spada di Damocle della prescrizione, come non pensarci ora che il processo è tutto da rifare! Eppure durante il processo di primo grado, le difese degli imputati – avvocati Giandomenico Caiazza, Pasquale Annichiarico e Luca Perrone sostenuti in primo grado dal parere pro veritate del Prof. Giorgio Spangher, ordinario di procedura penale – hanno tirato fuori il coniglio dal cilindro, sollevando un’eccezione di incompetenza funzionale ai sensi dell’art. 11 c.p.p., sottolineando la non estraneità, in qualità di possibili persone offese, di magistrati appartenenti all’ufficio giudiziario tarantino. Motivo per cui, la palese incompatibilità ambientale, dunque un giudice “non terzo” per coinvolgimento emotivo, avrebbe alterato l’equilibrio processuale.

Infatti, già in primo grado era emerso come diversi magistrati vivessero negli stessi quartieri in cui abitano molte persone costituitesi parti civili legittimate ad ottenere risarcimenti del danno, per cui gli stessi sarebbero potuti essere soggetti ad un possibile condizionamento ambientale.

Insomma, un colpo di genio del collegio difensivo degli imputati composto da stimabili avvocati i quali – sin da subito – hanno sottolineato l’importanza dirimente della questione che, ove accolta, avrebbe evitato le lungaggini di un processo estremamente complesso, per gravità dei titoli di reato e per numero di parti coinvolte, che ha tenuto per anni appesa ad un filo l’intera città di Taranto, sconvolta dalle tante vittime, spesso bambini.  I giudici di prime cure, pur non accogliendo l’eccezione di incompetenza sollevata, hanno sottolineato il lavoro certosino delle difese che – si legge nella sentenza di primo grado – «si sono profuse in analisi concrete e documentate con riferimento a numerosi magistrati tarantini che devono considerarsi persone danneggiate da reato rispetto alle concrete contestazioni mosse dal P.M. e che, quindi, legittimano il ricorso alla regola eccezionale di individuazione del giudice competente ex art. 11 c.p.p.»

In altri termini, «ad avviso delle difese eccepenti, in base alle imputazioni mosse in concreto (sia disastro innominato che danneggiamento aggravato) ed in base alla indicazione già fornita dalla medesima Corte in occasione della deliberazione sulla legittimazione alla costituzione di parte civile, è sufficiente essere residenti in modo formale o di fatto in Taranto per essere considerati persone danneggiate da reato, condizione alla quale non sfugge la maggior parte dei magistrati di Taranto, dei quali è stato fornito più di un elenco nominativo con documentazione anagrafica e catastale circa la loro residenza e le loro proprietà immobiliari (v. elenchi allegati alle memorie)».

Con specifico riferimento agli immobili – proseguivano i giudici di primo grado – «è stata effettuata una vera e propria cartina nella quale sono stati posizionati gli immobili di proprietà o residenza dei magistrati tarantini messi a confronto con quelli delle parti civili, al fine di dimostrarne la contiguità». Osserva la Corte, «riportandosi, evidentemente, alle proprie considerazioni di cui alla ordinanza del 18.7.2016, e prendendo a fondamento del ragionamento che segue le indicazioni fomite dal prof. Spangher nel suo parere, che presupposti di operatività della regola derogatoria della competenza funzionale siano sotto il profilo soggettivo che il soggetto processuale che assume il ruolo di imputato, indagato, persona offesa o danneggiata da reato, sia un magistrato e, sotto il profilo oggettivo, che lo stesso svolga o svolgesse queste funzioni al momento del fatto presso un ufficio giudiziario situato nel distretto di corte di appello». La ratio dell’art. 11 c.p.p. – si legge nella sentenza – «è quella di garantire anche in modo formale l’imparzialità della giurisdizione, sicché sarebbe contrario ai principi costituzionali di terzietà ed imparzialità del giudice che lo stesso venga giudicato o comunque sia persona offesa in un processo celebrato da suoi colleghi attuali o che lo erano al momento del fatto».

Da ultimo, «quanto alla generica qualifica di ciascun magistrato residente sul territorio tarantino nei termini di persona danneggiata dai reati – e, quindi, all’applicazione della norma derogatoria della competenza ex art.11 c.p.p. – per non frustrare un altro principio di rango costituzionale (ossia quello del giudice naturale), si deve evidenziare come nessun magistrato sia costituito (in modo diretto o indiretto parte civile) o abbia concretamente assunto la veste di persona offesa e/o danneggiata da reato».

Insomma, affinché operi il meccanismo di trasmissione ad altro ufficio giudiziario competente, è necessario che il magistrato assuma formalmente la qualità di persona offesa, non essendo sufficiente la denuncia di un fatto, in quanto atto finalizzato soltanto a portare un determinato fatto a conoscenza delle autorità competenti e non ad avanzare pretese risarcitorie.  Di diverso avviso, invece, i giudici di secondo grado per cui l’eccezione è da accogliere perché ritenuta di assoluta fondatezza. Non ci resta che attendere le motivazioni per cogliere il pregio delle argomentazioni addotte.

Peccato, però, che ad essere travolti saranno anni di articolata istruttoria dibattimentale, che hanno portato ben 26  condanne nei confronti di dirigenti della fabbrica, manager e politici, per circa 270 anni di carcere; la confisca degli impianti dell’area a caldo che la confisca per equivalente dell’illecito profitto nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva forni elettrici, per una somma di 2,1 miliardi di euro: i giudici inflissero 22 anni a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola; al responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall’accusa come la ‘longa manus’ dei Riva verso istituzioni e politica e nel frattempo deceduto, 21 anni e 6 mesi, sei mesi in meno all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso; ai  fiduciari dell’acciaieria – Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli e Agostino Pastorino – cd.  “governo ombra” dei Riva furono inflitti 18 anni e 6 mesi di pena. Mentre all’ex governatore della Regione Puglia Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso, fu inflitta una pena di 3 anni e 6 mesi; l’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido venne condannato a 3 anni. Stessa pena per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. Per l’ex consulente della procura Lorenzo Liberti una pena di 15 anni e 6 mesi. Condannato a 2 anni per favoreggiamento anche l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato.

La storia infinita dello stabilimento Ilva ancora violenta una città come Taranto, vittima della sua più importante creatura: dopo anni di morti apparentemente inspiegabili, studi scientifici accreditati e poi smentiti, provvedimenti di sequestri giudiziali poi neutralizzati da decreti salvifici, interruzioni processuali e rinnovazioni dibattimentali, arriva oggi l’ennesima bastonata.

La normativa c.d. “salva-Ilva” emanata dal legislatore fu introdotta, a partire dal 2012, allo scopo di autorizzare ex lege la prosecuzione dell’attività produttiva dell’acciaieria ionica, nonostante il sequestro preventivo senza facoltà d’uso disposto dalla magistratura tarantina. Da allora si sono susseguite numerose disposizioni integrative che hanno introdotto proroghe ed esenzioni di responsabilità penale e amministrativa per consentire il prosieguo della produzione. In barba alle esigenze di tutela della salute e dell’ambiente, si è fatto l’impossibile per salvare il salvabile. E, a quanto pare, stiamo proseguendo ancora in questa direzione! Oggi l’Ilva – Acciaierie Italiane - ha cessato quasi del tutto la produzione e prova a ripartire: il piano di riavvio del siderurgico di Taranto è nelle mani di commissari straordinari nominati dal Governo sui quali grava il compito di recuperare il sito di produzione, garantire il mantenimento dei posti di lavoro, ripulire il territorio nel rispetto delle condizioni imposte dall’AIA in fase di rinnovo. Gli ottimisti sostengono che nel 2026 l’andamento migliorerà.
Ma quanto tempo ancora sarà necessario per mettere un punto alla storia dello stabilimento Ilva e dare una risposta definitiva ai cittadini tarantini?

Eppure, promuovendo il piano di recupero e rilancio dello stabilimento Ilva, garantendo aiuti di Stato, qualcuno a Palazzo Chigi nel 2014 parlava di “uno degli atti più emozionanti del Consiglio dei Ministri”.  Sono trascorsi dieci anni, e non è chiaro a che punto siamo con il piano di risanamento ambientale - secondo l'ONU, Taranto rientra nelle "zone di sacrificio", ossia tra le aree più degradate ed inquinate del mondo - siamo arrivati a contare un totale di 11.550 morti, con una media di 1650 morti all'anno – una tragedia umana indescrivibile - il processo penale è da rifare e, allo stato, non ci sono responsabili e colpevoli. Tu chiamale se vuoi, emozioni! Un dato è certo: la difesa processuale di eccellente livello, grazie ad una raffinata e geniale questione processuale sta garantendo – ad oggi – la libertà degli imputati. Possiamo affermare, dunque, che legge è uguale per tutti ma non tutti gli “Avvocati” sono per tutti!

 

*Sostituto procuratore della Repubblica 

 

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