Economia

Fondazioni con il cerino in mano: senza dividendi di che cosa vivono?

di Marco Scotti

La ricetta di Bce ed Eba mette nei guai le fondazioni bancarie italiane che non possono “guadagnare” dalle loro partecipazioni

La (prevedibile e per certi versi auspicabile) indicazione da parte di Bce ed Eba di proseguire con la dieta forzata sui dividendi almeno fino al 30 settembre rischia di fare vittime eccellenti. In Italia, infatti, le fondazioni bancarie sono tra i principali azionisti degli istituti di credito e hanno un enorme problema: da statuto non possono funzionare come società di capitali, dunque non possono “guadagnare” dalle loro partecipazioni, altrimenti gli utili andrebbero tassati. Ma per poter sopravvivere devono impiegare – preferibilmente sul territorio, come disposto dalla Legge Tremonti del 2002 che le normò definitivamente – la gran parte delle proprie dotazioni in progetti di interesse sociale.

Sono equiparabili, pur con tutte le cautele del caso, a società del terzo settore e di conseguenza come tali devono comportarsi. Nonostante accuse in tempi recenti e passati (Tito Boeri fu uno dei più fieri avversari dell’intromissione della politica nelle Fondazioni) si tratta di soggetti che hanno un peso notevole nelle banche. E se queste sono costrette a tirare la cinghia e a non distribuire dividendi (o fino al 30 settembre, staccare solo il 15% delle cedole previste) come faranno a organizzare progetti sul territorio?

Oltretutto, mai come ora ci sarebbe bisogno delle fondazioni, mentre le aziende iniziano a intravedere lo spettro della crisi, mentre la soglia di povertà si alza sempre di più, mentre ci sarebbe bisogno di tutto il sostegno possibile a un’economia che sta passando dal coma profondo in cui è stata addormentata negli ultimi 9 mesi a una terapia intensiva lunga e dolorosa da cui uscirà sicuramente con qualche parte mancante.

Prendiamo la più grande banca del paese, Intesa SanPaolo. Il capitale azionario vede un flottante superiore al 76%, mentre le restanti quote sono in mano – anche - a cinque fondazioni bancarie: la Compagnia di San Paolo con il 6,1% del complessivo, Cariplo con poco meno del 4, Cariparo con l’1,78%, Cr Firenze con l’1,68% e Carisbo con l’1,25%. Si tratta di una quota complessiva di oltre il 14%, cui non va dimenticato che contribuirà anche Ubi Banca una volta che sarà definitivamente entrata nel perimetro di Ca’ De Sass. La Fondazione Monte di Lombardia, ad esempio, aveva una partecipazione di quasi il 5% in Ubi e ha scelto di aderire all’Opas con cui Messina e la banca hanno dato la scalata all’istituto guidato da Victor Massiah.

Le casse di risparmio di Torino e di Lucca hanno un peso importante nel Banco Bpm, che si guarda intorno per capire se esista la possibilità di unirsi con Bper per creare il terzo (o secondo, dipende da quali fattori si guardano) gruppo bancario in Italia.

Dunque, cedole ridotte significano fondamentalmente un bilancio molto più tirato per le fondazioni. Perché, ad esempio, il 38,7% delle partecipazioni della Compagnia di San Paolo è proprio in Intesa, e un taglio dell’85% dei ritorni è un problema molto significativo. Cariplo, che di Ca’ De Sass ha una quota consistente, lo scorso anno aveva un patrimonio di 7,9 miliardi e – come da statuto – uscite per la stessa cifra dal momento che la Fondazione non può essere a fine di lucro.

Proprio Intesa Sanpaolo, tra l’altro, rischia di essere la banca più penalizzata del nostro paese perché garantisce una buona redditività e perché – più di altri istituti – vede la partecipazione di soggetti non speculativi come, appunto, le fondazioni. Secondo Credit Suisse, infatti, che vede yield in media dell’1,2%, tra le grandi banche Nordea Bank, Abn Amro, Ing, Kbc Bank e proprio Intesa Sanpaolo saranno tra le più penalizzate in quanto quelle meglio capitalizzate e con dividend yield più elevato.

Ecco dunque che si potrebbe pensare – ed è questa la soluzione su cui preme maggiormente Messina e che è stata caldeggiata sia dal Financial Times che da Citigroup – a uno sblocco “selettivo” dei dividendi in base ai conti 2019 e 2020. Ma se si dovesse comunque porre un tetto massimo, gli azionisti di Intesa SanPaolo (e dunque anche le cinque fondazioni), che già stavano pregustando una doppia razione di cedole, potrebbero rimanere scottati: in aggiunta alla prevista distribuzione di dividendi cash da utile netto del 2020, infatti, l'istituto guidato da Carlo Messina voleva chiedere alla Bce l'approvazione per una distribuzione cash da riserve nel 2021 alla luce dell'utile netto 2019 allocato a riserve nel 2020. Intesa aveva confermato un pay-out ratio del 75% dell'utile per il 2020 e del 70% per quello 2021. Ma sarebbe un risveglio molto amaro se la Bce consentisse alle banche di erogare dividendi per un ammontare compreso tra appena il 15% e il 25% degli utili.