Economia

I figli di Gnutti vendono il tesoro di Gp. I quadri di una finanza che non c'è più

Ligresti, Gnutti, Colaninno e Pesenti, gli attori-imprenditori. Geronzi, Mussari, Passera e Profumo, i banchieri-registi ora in pensione. Il cortile di Mediobanca o le stanze ovattate della City milanese il set del film sui salotti buoni della finanza che fu. Il salvataggio di questi giorni, raccontato da Il Giornale, della finanziaria di Gp di Emilio Gnutti (il raider bresciano che insieme a Roberto Colaninno guidò nel lontano '99 la razza padana alla conquista di Telecom Italia) ad opera dei propri figli potrebbe essere invece l'ultima scena di una pellicola a lieto fine in cui le nuove generazioni riscattano gli errori fatti dai padri (di solito sono gli eredi-cicale a sperperare le ricchezze accumulate dai genitori in anni di duro lavoro e non, al contrario, la messa all'incanto del tesoro di papà per non far morire quello che resta di un impero), salvando il destino di un'intera generazione.

La trama del film è quella della morte della finanza tricolore dei patti parasociali siglati dagli anni '80 in poi nelle segrete stanze di Piazzetta Cuccia. Quel capitalismo di relazione (stigmatizzato non più tardi di domenica a Cernobbio anche dal premier-rottamatore Matteo Renzi di fronte al gotha dell'economia nazionale che una volta faceva a gomitate per finire sotto lo sguardo benevolo di Mediobanca) che la crisi finanziaria del 2009 ha definitivamente spazzato via. Un'improvvisa bufera che ha spinto i capitalisti italiani senza capitali a dover mettere a posto i conti delle proprie aziende sottocapitalizzate per rispondere al pressing delle reginette del credito (la merchant bank di Enrico Cuccia e il suo braccio finanziario Generali e UniCredit, in primis). Gruppi desiderosi, dopo la sbornia della finanza strutturata e del trading gonfia-bilanci, di tornare a focalizzarsi sul retail. Un businnes più sicuro e meno volatile in grado di garantire utili e dividendi in costante crescita al riparo dai chiari di luna dei mercati finanziari.

Così, leggendo in questi giorni delle Ferrari, Porsche e Bentley d'epoca con cui Grutti sfilava alla Mille Miglia (un appuntamento mondano irrinunciabile per il finanziere bresciano) o dei quadri messi in vendita dai suoi figli per risanare i conti della Gp, sembra di rivedere una di quelle vecchie pagine di quotidiano che aprivano poco meno di un decennio fa la sezione finanza dei giornali in cui la razza padana scorrazzava a Piazza Affari e sfidava i salotti buoni. O, in cui, mentre mister 5% Ligresti controllava un impero che andava dalle polizze (FonSai e Milano Assicurazioni) al mattone (ImmCo e Sinergia), grazie ai piccoli puntelli azionari in Mediobanca e UniCredit.

Quelle pagine, ormai dai contorni in bianco e nero, descrivevano anche le strette di mano siglate nel cortile di via Filodrammatici fra Cesare Geronzi e il decano della finanza tricolore Giovanni Bazoli. Patto fra gentiluomini stipulato per blindare il controllo di Telecom post-Tronchetti Provera minacciata dalle mira degli americani di At&t e dai sogni di grandeur del magnate messicano Carlos Slim. O, ancora, le campagne acquisti di Alessandro Profumo con UniCredit e di Giuseppe Mussari con Mps, banchieri che a botte di miliardate ingrandivano i propri imperi del credito, salvo poi dover ricorrere a pesanti aumenti di capitale per rimpinguare i ratios e non mettere altrimenti a repentaglio i propri gruppi durante la peggiore crisi del Dopoguerra.

L'uscita di scena (dopo una piccola parentesi in Generali) di Geronzi e il venir della centralità dell'arzillo vecchietto (copyright Diego Della Valle) Bazoli hanno lasciato lo spazio ai più prudenti giovani manager di Mediobanca come Alberto Nagel e Renato Pagliaro, allievi del delfino di Cuccia Vincenzo Maranghi e al fuoriclasse delle polizze Mario Greco (in Generali). Dirigenti cinquantenni che, al grido di "torniamo al core business", hanno messo la parola fine alle fitta rete di partecipazioni dei salotti della finanza che dalla merchant bank milanese arrivava fino a Nordest, nell'azionariato della compagnia assicurativa triestina. Passando per Via Rizzoli.

Così per mettere ordine nei propri portafogli crediti  e stringere i cordoni della borsa in ottica Basilea 3 o in chiave vigilanza europea, le banche hanno ristrutturato per esempio gli imperi Zaleski o Ligresti e lasciato al proprio destino, rifiutandosi cioè di partecipare ad improbabili cordate, Telecom (finita ora in orbita francese) e gli altri gioielli del made in Italy come Parmalat, Bulgari, Alitalia, Indesit, Loro Piana, Ferretti e Poltrona Frau. Aziende finite preda degli insaziabili appetiti dei colossi d'Oltreconfine e vittima della globalizzazione che non perdona. Logica a cui non sono riuscite a sfuggire nell'ultimo anno neanche le meglio messe Italcementi (ai tedeschi di Heidelberg) e Pirelli (ai cinesi di China Chem). Nel frattempo, i capitali d'oltre Confine, questa volta provenienti dal Golfo Arabo, hanno espropriato i rampanti capitani del capitalismo tricolore anche delle loro mete vacanziere preferite come la Costa Smeralda o dei quartieri generali della nuova City milanese che ha il proprio cuore in piazza Gae Aulenti. Un simbolo della rinascita dell'Italia dell'Expo, la vetrina di un Paese ormai in svendita.