Economia
Ilva, il progetto a emissioni zero di Danieli-Saipem-Leonardo. Roadshow al via
Costo 6 miliardi. No esuberi, in 10 anni investimento ripagato. Il consorzio Danieli-Saipem-Leonardo pronto a presentare i piani al Ministero di Cingolani
A Taranto produrre acciaio a “CO2 zero” si può. Mentre il dossier ex Ilva è ripiombato nell’incertezza, chissà se il neo ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti sa che il team dell’”acciaio verde”, quella produzione siderurgica green che l’azionista pubblico intendeva oltretutto portare in Puglia con Invitalia nel piano per la transizione ecologica dell’impianto, è già stato costituito addirittura da tre eccellenze italiane: una privata, la Danieli, società del settore che realizza il 96% del proprio fatturato all’estero, quotata in Borsa e controllata dall’omonima famiglia friulana. Le altre due, grandi partecipate pubbliche: Saipem e Leonardo.
I tre gruppi hanno siglato la scorsa settimana un accordo tecnologico quadro che si propone, è l’oggetto dell’intesa, di riconvertire in maniera sostenibile impianti primari ad alta intensità di energia nel comparto siderurgico in Italia, in particolare al Sud, ma anche all’estero.
Il motivo? C'è un “florido” mercato da aggredire attorno al migliaio di vecchi altoforni ad alto impatto ambientale che contaminano: per capire, nel mondo si producono attualmente due miliardi di tonnellate da acciaio, di cui circa 1,1-1,2 miliardi arrivano da altoforno, il resto invece da forni elettrici. Dunque, oltre la metà degli impianti siderurgici, su cui incombe la costosissima carbon tax, è potenzialmente riconvertibile.
Mentre il consorzio ha davanti un roadshow internazionale per esporre 300 progetti di questo tipo in giro per il globo, secondo quanto risulta ad Affaritaliani.it uno degli obiettivi del piano di Danieli, Saipem e Leonardo è proprio la riconversione nei confini di casa nostra. Ovvero il risanamento dell’ex Ilva, un target raggiungibile in sei anni (procedendo per step, in molto meno tempo se i partner lavoreranno in parallelo) salvando la fabbrica, le maestranze e sostituendo nel processo produttivo i famigerati altiforni inquinanti.
Con cosa? E qui entra in gioco la tecnologia made in Italy esportabile: forni digitali ad alimentazione elettrica ibrida integrati a impianti di riduzione diretta del minerale di ferro per mezzo di una miscela di metano e idrogeno. Un progetto “chiavi in mano” da incorniciare all’interno del Recovery Plan (da finanziare, dunque, con i miliardari fondi comunitari), il cui costo, spiega ad Affaritaliani.it Antonello Mordeglia, ingegnere e consigliere di amministrazione della Danieli, “si aggira intorno ai 6 miliardi di euro per rendere Taranto tutta green, approvvigionamento energetico compreso e in grado di consentire una produzione annuale fra le 6 e le 7 milioni di tonnellate di acciaio”.
Se si considera una marginalità di 100 euro per ogni tonnellata di output, la riconversione verde permetterebbe di ripagare l’intero investimento iniziale in 10 anni.
Nella partnership, Danieli, che già serve come grandi clienti gli Emirati, gli Stati Uniti, la Russia, l’Egitto e il Giappone, curerà la tecnologia della riduzione diretta e dei forni elettrici digitali. Saipem e Leonardo, invece, si occuperanno della parte di generazione di energia rinnovabile e di idrogeno e della gestione eventuale di altri gas per alimentare l’impianto. In sostanza, dell’approvvigionamento energetico ed eventualmente anche del recupero della CO2 a Taranto durante le fasi di sviluppo del progetto. In particolare, poi, il gruppo guidato da Alessandro Profumo gestirà la parte del controllo e dell'automazione degli impianti upstream costruiti invece da Saipem. Un pacchetto molto più ampio del semplice rifacimento dell’altoforno 5 e della costruzione del forno elettrico previsti dal piano Invitalia-ArcelorMittalItalia.
I tre player, coordinati a quanto pare dall’amministratore delegato di Saipem Stefano Cao, il cui nome era anche circolato a fine gennaio come possibile presidente della joint venture Invitalia-ArcelorMittal Italia nell’accordo di coinvestimento siglato sotto il governo Conte (ma il cui decreto è ancora fermo al Tesoro, senza firma), hanno ora intenzione di esporre il proprio progetto ai tre Ministeri centrali per il rilancio del settore siderurgico (la formula è applicabile anche alla situazione di Piombino): Mise, Infrastrutture e Lavoro, coordinati però dal neo-Ministero “tecnico” per la Transizione ecologica di Stefano Cingolani (nella prima foto in alto). Un team con la necessaria forza decisionale in grado di garantire una corsia preferenziale per un progetto che, oltre a risolvere il problema ambientale a Taranto, consentirebbe all’Italia di mantenere anche la produzione industriale strategica dell’acciaio (30 milioni di tonnellate annue). La cui assenza, invece, condannerebbe il Paese a importarlo per sempre dagli indiani e dai cinesi.
Il consorzio si sta preparando e attrezzando per risolvere i problemi della transizione ecologica nella produzione dell’acciaio all’estero. Per una volta, la tecnologia brevettata è già in Italia e sta per essere esportata oltre confine, unendo gli sforzi di tre colossi che non hanno difficoltà a finanziarsi e che non si farebbero concorrenza nella fasi della consegna degli impianti “chiavi in mano”. Insomma, una formula win-win, senza rischi di execution.
Con i fondi del Recovery dedicati proprio alla rivoluzione verde e alla transizione ecologica (69 miliardi in tutto nel Pnrr), sarebbe un peccato farsi sfuggire il treno.
@andreadeugeni