Economia
Intesa-Ubi, arriva Cattolica con l'1%. Il capitalismo padano serra le fila
L'ingresso della compagnia nel Car di Ubi contro l'Ops di Intesa
Il capitalismo “relazionale” italiano non vuol saperne di arrendersi al “libero mercato”. Lo dimostra l’ingresso con l’1,01% di Cattolica Assicurazioni nel Comitato Azionisti di Riferimento (Car) di Ubi Banca, che così vede risalire al 18,7% la percentuale di capitale dell’istituto controllata dai suoi aderenti dopo che l’uscita di scena di Domenico Bosatelli (il patron di Gewiss), che assieme ad altri esponenti della sua famiglia aveva portato fuori dal patto 1,1 milioni di azioni (0,096% del capitale) lo scorso 18 febbraio, il giorno dopo l’annuncio dell’Offerta di scambio “tecnicamente non amichevole” avanzata da Intesa Sanpaolo, facendo scendere il Car al 17,704% di Ubi Banca (pacchetto poi ricresciuto di uno 0,1% grazie agli acquisti di ieri della Fondazione Cuneo e della famiglia Radici).
Il presidente di Cattolica Assicurazioni Paolo Bedoni
Giravolte nell’azionariato che sembrano riflettere un filo comune: Cattolica Assicurazioni, sotto la guida del presidente Paolo Bedoni, aveva prima chiamato a ricoprire la carica di amministratore delegato dell’assicuratore veneto Alberto Minali, ex direttore generale e Cfo di Generali oltre che ex Cio di Eurizon Group, in ottimi rapporti coi grandi investitori internazionali come Warren Buffet (entrato nel capitale di Cattolica sotto Minali e tuttora socio col 9,047%), poi lo aveva accompagnato alla porta ufficialmente per un “divergenza d’opinione” relativa a “l’organizzazione societaria, gli scenari strategici e i rapporti con i soci e col mercato”. Di fatto, pare, per le critiche mosse da Minali agli emolumenti di Bedoni e il tentativo di trasformare la forma societaria in Spa.
In terra lombarda, secondo alcuni rumors, alcuni soci di Ubi Banca da mesi paiono impegnati in azione di “moral suasion” sul Ceo Victor Massiah per cercare di arrivare a una fusione con qualche altra grande banca popolare (si sono fatti, inutilmente sinora, i nomi di Banco Bpm prima e Bper Banca poi, segnalando l’obiettivo neppure troppo nascosto di creare la premesse per una successiva integrazione di Mps). Un disegno che l’offerta di Carlo Messina rischia di far finire nel cestino della carta straccia e che non può piacere troppo a chi, in cambio di un investimento di poche decine o centinaia di milioni di euro controlla un istituto di credito che in Borsa vale 4,5 miliardi.
Una tattica che negli anni è stata adottata da molti imprenditori italiani, basti ricordare il precedente di Telecom Italia dove un patto sul 6,62%, guidato dall’Ifil della famiglia Agnelli con appena lo 0,6%, governò l’ex monopolista telefonico dalla privatizzazione fino alla scalata dei “capitalisti coraggiosi” Gnutti e Colaninno. Questa “corrispondenza d’amorosi sensi” tra vetero-capitalisti veneti e lombardi non sembra in grado né interessata ad una guerra di rilanci con Intesa Sanpaolo, semmai alla ricerca di un arrocco.
Secondo ambienti finanziari milanesi il Car potrà anche superare il 20%, ma difficilmente arriverà vicino alla soglia rilevante del 25% oltre il quale scatterebbe l’obbligo di Opa. Se al 18%-20% del Car, e all’1,6% del Patto dei Mille (a sua volta dettosi ostile all’Ops di Messina), si aggiungesse anche l’8,37% del capitale che fa riferimento al Sindacato azionisti di Ubi (guidato dalla famiglia Bazoli), magari con una manciata di altri soci privati a dar manforto acquistando qualche milionata di titoli in borsa, si potrebbe infatti arrivare al 33,4% di Ubi Banca. Scenario difficile visto che basta ricordare chi è stato Giovanni Bazoli in Banca Intesa.
Nel caso però la soglia del no arrivasse a oltre il 33% per Carlo Messina le cose si metterebbero male perché non ci sarebbe più la possibilità di raggiungere la maggioranza qualificata dei due terzi del capitale necessaria a controllare l’assemblea straordinaria che dovrà, in caso di successo dell’Ops, deliberare la successiva fusione per incorporazione di Ubi Banca in Intesa Sanpaolo. Proprio questo scenario è quello che i vari “nocciolini duri” sembrano temere più di tutti, ufficialmente perché, come sottolineato dalla Fondazione Banca Monte di Lombardia (membro del Car e socia al 4,959% di Ubi Banca), l’operazione finirebbe col “far estinguere del tutto la banca”.
Più concretamente perché, spiegano alcuni osservatori del risiko bancario, potrebbero mutare vuoi le politiche di dividendo, vuoi i rapporti privilegiati nell’erogazione del credito, essendo gli attuali azionisti del Car destinati a scivolare al 2% complessivo del capitale del nuovo gruppo bancario, così perdendo ogni residuo potere. Carlo Messina per ora non risponde al fuoco di sbarramento, contando sul fatto che Bazoli non si metta di traverso all’istituto di cui è stato a lungo il numero uno e di cui è tuttora presidente emerito.
Soprattutto Messina sa che più della metà del capitale di Ubi Banca è in mano ai grandi fondi, che non sono interessati alle logiche localistiche e di potere, quanto al rendimento che un investimento è in grado di offrire. Così la mossa vincente potrebbe alla fine essere, nonostante i ripetuti dinieghi in tal senso, un ritocco all’insù dell’offerta, ad esempio offrendo fino a 20-22 azioni Intesa Sanpaolo per ogni azione Ubi Banca (e non 17 azioni come attualmente).
In questo modo la valutazione implicita di Ubi Banca dai 4,9 miliardi iniziali sino a 5,6-6,2 miliardi di euro, con un robusto rilancio che varrebbe tra il 20% e il 25% rispetto all’offerta originale. Un rilancio che se da un lato rischia di rendere necessario il procedere poi a tagli più incisivi per far quadrare i conti attraverso future sinergie tra i due istituti, dall’altro potrebbe effettivamente portare ad una rapida adesione all’offerta da parte dei grandi fondi. Ma non è detto che ciò convinca tutti i soci riottosi di Ubi Banca a dare il proprio benestare, se il problema non fosse quello della congruità della valutazione quanto della perdita di potere conseguente alla vittoria del “libero mercato”.