Economia
Dazi, mercati in balìa dell'incertezza. Dalla sbandata del Treasury al dollaro: così Trump gioca col fuoco
Che cosa c'è dietro le ultime mosse del tycoon su dazi e non solo

Mercati Finanziari
La crisi di fiducia rischia di trasformare il rischio economico in rischio sistemico. Il commento a cura di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM
È il mercato obbligazionario ad avere in mano le carte, per dirla con un’espressione familiare a Donald Trump. Dopo la sbandata del Treasury, l’amministrazione ha evitato il peggio cambiando direzione, Trump ha annunciato la moratoria sui dazi di tre mesi e l’alleggerimento delle tariffe sugli oggetti di elettronica importati dalla Cina.
Saranno novanta giorni in cui agirà la segreta diplomazia finanziaria, quella che ha portato alla formidabile domanda estera di titoli del Tesoro americano dopo il gramo esito dell’asta di martedì 8 aprile.
La sospensione delle tariffe è un lenitivo alle tensioni commerciali ma non argina il pericolo che il rischio economico diventi rischio sistemico, si profila la possibilità che una crisi di fiducia negli Stati Uniti di Trump metta in discussione i pilastri dell’ordine monetario globale. Trump e Vance hanno messo sul piatto l’asset più prezioso, la credibilità, in una partita che stanno giocando maldestramente. Qualcuno crede, o vuol far credere, che il continuo cambio delle regole del gioco sia “arte della negoziazione”, ai più sembra pericolosa incoerenza nelle prospettive politiche ed economiche.
I mercati detestano l’incertezza, sono ecosistemi adattivi, si adeguano facilmente alle fasi di crescita o di calo degli utili, ma qui non si tratta di adattarsi alle prospettive di maggiore o minore inflazione o di calo degli utili nel breve termine. Le aziende e i mercati non hanno il tempo di valutare le conseguenze di una decisione che questa viene cambiata, ricalibrata, modificata in una girandola che intralcia la pianificazione degli investimenti nel medio e lungo termine.
In questi giorni Trump e i suoi non si sono dati troppa cura degli spettacolari crolli del mercato azionario, il presidente lo ha anche detto chiaramente, le tariffe avrebbero causato “un po' di disturbo, ma a noi va bene così”. È stata la crisi dei Treasury a suonare l’allarme, perché i tassi e i rendimenti riguardano Main Street, l’economia del bullone e della lamiera, ne vanno di mezzo le decisioni di investimento e i programmi di assunzioni, le ipoteche, i prestiti, gli interessi sui pagamenti a rate delle carte di credito. Per dirla con parole familiari a Trump, il mercato obbligazionario continua a “far paura a chiunque”.
I movimenti del Treasury sono stati spettacolari: grandezze finanziarie che si spostano normalmente di pochi punti base sono entrate in un frullatore che nel giro di pochi giorni ha portato i rendimenti da 4,30% a 3,9%, poi sono risaliti verso 4,40%, hanno ritracciato verso 4,30% e potrebbero superare di nuovo la soglia di 4,5%.
Movimenti così bruschi che suscitano dubbi sull’affidabilità degli asset americani, il Treasury ha trascinato con sé anche il dollaro e si torna a discutere del suo status di bene rifugio. Le tensioni sui dazi e il “rischio controparte” alimentato da questa amministrazione, rendono pericolosamente concreta la crisi di fiducia negli Stati Uniti come punto di riferimento della finanza globale.
E qui emerge una (ulteriore) contraddizione negli obiettivi economici di questa amministrazione: il desiderio di un dollaro debole, per favorire le merci e il lavoro americani, senza però far perdere al biglietto verde lo status di moneta globale.
Due obiettivi inconciliabili: conservare il ruolo dominante nell’integrazione globale comporta il costo della rinuncia a parte del controllo dell’economia nazionale in quanto la valuta e i titoli di stato diventano “porti sicuri” per la domanda globale. Un assetto finanziario che era funzionale alla Pax Americana ma che nel nuovo mondo multipolare diventa causa di squilibri e di tensioni commerciali.
Gli Stati Uniti hanno beneficiato dei flussi di attività finanziarie in dollari e, scrive l’economista Michael Pettis, “non è una coincidenza che gli Stati Uniti, con i loro mercati finanziari profondi, flessibili e ben governati abbiano quote di PIL manifatturiero ben al di sotto della media mondiale, a differenza di economie come la Cina”. A fronte della profondità e liquidità del mercato finanziario americano, ci sono infatti gli avanzi commerciali della Cina e la sua quota di PIL manifatturiero al di sopra della media mondiale.
Non è la prima volta che il biglietto verde affronta una fase di turbolenza, non è la prima volta che se ne anticipa la fine. Per il momento c’è molto rumore ma non ci sono segnali, il dollaro si trova “nell’universo parallelo dello scontro commerciale con la Cina” scrive Robin Brooks, non durerà all’infinito, la fine della centralità del dollaro è “fortemente esagerata”.
I dazi sono il dito che indica la luna dell’enorme debito federale e degli squilibri commerciali. Problemi reali amplificati dal nuovo assetto globale, le misure tariffarie sono però lo strumento meno efficace per affrontare le cause degli squilibri e tanto meno risolverle. I prossimi novanta giorni saranno sotto il segno dell’incertezza con ascendente cautela.
Dopo mesi di entusiasmo, gli scossoni hanno provocato un brusco ritorno alla realtà che potrebbe portare a decisioni di investimento altrettanto brusche. Non mancheranno nuove sorprese ma la peggiore insidia saranno le emozioni, perché il presente dell’attualità fa sempre premio sulla memoria, fa perdere di vista la legge potente della regressione verso la media.
La tolleranza al rischio, la “soglia del dolore” di quanto si è disposti a sopportare quando i mercati vanno giù è sempre un concetto distante quando le cose vanno bene, la propensione al rischio dichiarata raramente coincide con quella avvertita nelle fasi di mercato negative. Un paio di parametri aiutano a stabilire la “soglia del dolore” con buona approssimazione: l’orizzonte temporale ( per quanto tempo ci si può privare delle somme investite) e stabilire l’importo massimo che si è disposti a perdere.
La seconda regola aurea è riconoscere la propria inadeguatezza verso la complessità dei mercati e degli strumenti finanziari. Se invece si è (o ci si crede) esperti, la regola è riconoscere che l’insidia più temibile è quella delle proprie emozioni, paura ed euforia possono indurre a scelte che nel tempo si potrebbero rivelare costose.
Anche la terza regola contiene un paradosso: è preferibile guardare poco il portafoglio, il “meno” vale di più. Tre regole auree che possono aiutare ad affrontare con maggior fiducia i prossimi novanta giorni che continueranno a essere segnati da incertezza e volatilità: l’ansia non si potrà mai eliminare ma si può cercare di tenerla a bada.