Economia
"La sostenibilità? Crea lavoro". La ricetta di Catia Bastioli (Terna)
di Mario Bonaccorso*
“Varare leggi capaci di fare la differenza significa superare l’azione frenante di chi difende e alimenta le rendite di posizione, mettere in pratica la buona industria e moltiplicare i casi virtuosi che ci sono nel nostro Paese. Molta parte dell’industria italiana ha investito e sta investendo nello sviluppo di nuovi prodotti e tecnologie ‘green’, e considera ormai la sostenibilità come un’opportunità piuttosto che come un vincolo”. È quanto dice, in questa lunga esclusiva intervista concessa ad Affaritaliani.it, Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont e presidente di Terna (nella foto sopra con Matteo Del Fante), la manager unanimemente riconosciuta come la guida e il faro della bioeconomia italiana. Mentre nel nostro Paese infuria lo scandalo Tempa Rossa, con Bastioli parliamo di bioeconomia, di economia circolare, di COP21 e di Green Act, di come i nuovi paradigmi di crescita economica eco-sostenibile già oggi stiano creando ricchezza e nuovi posti di lavoro.
“Si stima – afferma la manager umbra – che ogni 1.000 tonnellate di bioplastiche siano in grado di generare 60 posti di lavoro lungo tutta la filiera, a partire dall’agricoltura fino al rifiuto organico”. A pochi giorni dalla IV Conferenza europea degli Stakeholder della bioeconomia (Utrecht, 12-13 aprile), che sarà chiamata a ridefinire la strategia sulla bioeconomia dell’Unione europea e che vedrà proprio l’ad di Novamont come una dei protagonisti principali.
Dottoressa Bastioli, a Parigi la COP21 si è chiusa con un accordo definito da molti come un risultato storico. Quale spinta ne potrà trarre la bioeconomia europea?
"Concordo sul fatto che sia stato raggiunto un accordo storico: è infatti la prima volta che sul clima si è arrivati ad un'intesa che coinvolge in maniera attiva 195 paesi, con 186 che si sono già impegnati a un taglio delle emissioni. Ovviamente non si può dire che il problema sia stato risolto, ma sono stati lanciati segnali importanti: è stato di fatto riconosciuto che il sistema lineare di produzione-distribuzione-consumo alimentato dall’impiego di enormi quantità di fonti fossili ha prodotto costi esterni crescenti, sono stati individuati dei target sfidanti e i Paesi hanno dimostrato di marciare in modo compatto, pur con differenziazioni chiare sulle responsabilità pregresse. Fra il traguardo da raggiungere e gli strumenti adottati, ad oggi molto vaghi, c'è ancora una distanza abissale, ma a mio avviso la spinta creata da questa conferenza accelererà la penetrazione della green economy e della bioeconomia in particolare. Diventerà cioè concreta la possibilità di riscrivere i paradigmi che hanno dominato i sistemi economici, e quindi i nostri stili di vita, nell’ultimo secolo".
Intanto, in tema di bioeconomia, l’Italia è l’unico grande Paese europeo senza una propria strategia nazionale e apparentemente senza una visione. Anche le Regioni sono in ritardo. Quanto incide questo sulla competitività dell’industria italiana?
"Occorrono un quadro complessivo coerente e una strategia chiara a livello nazionale per supportare la competitività della nostra industria e fare il necessario salto culturale che, per essere tale, deve investire l’intera società. La speranza è che il Green Act possa andare in questa direzione. Ma paradossalmente proprio il nostro Paese è già, per certi versi, un modello di bioeconomia, ed è già pronto a livello tecnologico. Filiere come quella dei biochemicals e delle bioplastiche, concepite come soluzioni in grado di trasformare problemi ambientali, come quello del rifiuto organico, in risorse, dimostrano che l’Italia è ampiamente in grado di dar vita a modelli fortemente innovativi e sistemici, di esempio sia sul piano della competitività che del consenso internazionale. L’Italia ha gli standard migliori a livello internazionale di raccolta differenziata e di qualità dell’organico, con la città di Milano che fa scuola in tutto il mondo. Ha ideato il concetto di bioraffineria integrata nel territorio, guardato con interesse anche dalla Commissione europea, con filiere lunghe che arrivano fino all’agricoltura. E diverse regioni stanno oggi concretamente cercando di mettere in pratica un modello di bioeconomia intesa come rigenerazione territoriale".
Il governo Renzi ha annunciato l’introduzione di un Green Act, che però – ad oggi – rimane un pacchetto un po’ misterioso. Dal suo punto di vista, perché è tanto complicato fare leggi “green” nel nostro paese? E con quali misure questa nuova legge potrà favorire lo sviluppo delle bioeconomia italiana?
"Varare leggi capaci di fare la differenza significa superare l’azione frenante di chi difende e alimenta le rendite di posizione, mettere in pratica la buona industria e moltiplicare i casi virtuosi che ci sono nel nostro paese. Molta parte dell’industria italiana ha investito e sta investendo nello sviluppo di nuovi prodotti e tecnologie “green”, e considera ormai la sostenibilità come un’opportunità piuttosto che come un vincolo. Il mio auspicio è che il Green Act possa far proprio il concetto di economia circolare, promuovendo le iniziative che partono dai territori e dal concetto europeo di “Regioni Sostenibili”, e mettendo al centro le tante innovazioni disponibili e in fase di sviluppo, l’uso efficiente delle risorse locali, la sostenibilità ambientale e un nuovo approccio alla produzione e al consumo: inclusivo e capace di reindustrializzare aree in crisi senza generare scarti, siano essi di materia, di energia o di persone. Per fare in modo che i casi virtuosi non rimangano tali ma diventino sistema, occorre inoltre che i modelli vincenti presenti nel nostro paese siano promossi e replicati anche in aree meno virtuose, in modo da ridurre le differenze di “velocità” esistenti tra le diverse zone e accelerare lo sviluppo. Solo così riusciremo davvero a fare in modo che l’Italia sia motore e dimostratore di un nuovo paradigma".
A Bruxelles si discute molto della necessità di introdurre anche in Europa un sistema di Green Public Procurement per sostenere la domanda di prodotti bio-based, così come fatto negli Stati Uniti con il programma Biopreferred. Secondo lei si può fare in Italia?
"È un aspetto importante, che può dare una spinta molto forte all’innovazione e alla bioeconomia in generale. Ma per ottenere l’effetto sperato è necessario lavorare allo stesso tempo sulla definizione e l’applicazione di standard chiari e rigorosi per qualificare i prodotti bio-based, facendo riferimento a criteri ambientali minimi e sistemici".
Il paradigma economico più in voga oggi è quello dell’economia circolare. Come valuta il pacchetto presentato dalla Commissione europea lo scorso dicembre?
"Sicuramente il fatto che la Commissione europea abbia deciso di riprendere in mano il tema dell’economia circolare rappresenta un segnale molto positivo, nonché un successo del nostro paese, che si è speso molto in questo senso. Siamo sulla strada giusta, anche se a mio parere ci sono margini di miglioramento per rendere più vincolanti ed efficaci alcune misure, ad esempio in merito all’obbligatorietà della raccolta differenziata del rifiuto organico. Un ulteriore passo potrebbe inoltre essere quello di stabilire una maggiore sinergia tra il concetto di circolarità e quello di bioeconomia che, se declinata come rigenerazione territoriale, diventa circolare “per natura” perché utilizza materie prime rinnovabili e contribuisce alla riduzione delle emissioni di CO2, fornendo soluzioni a sfide sociali ed ambientali".
Un ruolo importante nel sostegno alla bioeconomia lo gioca la percezione dell’opinione pubblica, che molto spesso è più interessata al costo di un prodotto che alla sua impronta ecologica. Come è possibile conciliare economia ed ecologia? Qual è l’effettivo potenziale di rigenerazione del territorio e di creazione di posti di lavoro della bioeconomia in Italia?
"La transizione dei sistemi di produzione, di consumo e di stile di vita è un fatto culturale, prima ancora che economico, che richiede un profondo cambiamento di mentalità in ognuno di noi. Credo che oggi l’opinione pubblica sia molto più consapevole che in passato. I sondaggi ci mostrano infatti che i cittadini europei sono pronti ad un cambiamento culturale, e che la crisi finanziaria non ha ridotto il loro focus sui problemi ambientali, ma li ha resi ancor più convinti che occorra agire a tutti i livelli per salvaguardare l’ambiente ed anche l’economia locale. Pensiamo ad esempio all’enorme problema del disseccamento degli ulivi in Puglia dove si parla di xylella ma anche di terreni fortemente desertificati, quando si continua a considerare scarto un prezioso rifiuto organico che finisce in discarica. La cultura si crea sul campo, attraverso progetti di territorio basati sulla collaborazione delle parti e capaci di dare una risposta tangibile alle sfide sociali, ambientali e di scarsità di risorse del pianeta. In Italia sono già presenti le competenze e le tecnologie per attivare progetti di rigenerazione territoriale con un grande potenziale in termini di riconversione di siti industriali non più competitivi o dismessi in bioraffinerie integrate, di utilizzo di terreni marginali e inquinati, di creazione di nuove filiere, nuovi prodotti e nuovi posti di lavoro. Si stima che ogni 1.000 tonnellate di bioplastiche siano in grado di generare 60 posti di lavoro lungo tutta la filiera, a partire dall’agricoltura fino al rifiuto organico".
*www.ilbioeconomista.com