Le responsabilità (e i silenzi) della borghesia italiana
di Enzo Manes (da Corriere della Sera)
C’è qualcosa di paradossale nella rivolta italiana contro l’élite. Non dal lato, comune ad altri Paesi, della sollevazione populista. Quanto per il ruolo dell’establishment. Di fronte all’ondata anti-elitaria solo in Italia una parte così ampia di chi detiene il potere – dai media alle professioni intellettuali, dagli imprenditori ai vertici dell’amministrazione – ha perso la voce o addirittura l’ha prestata ai nuovi vincitori. La borghesia italiana, come in altri tempi si sarebbe chiamata, è muta. Indifferente come se il futuro del Paese non la riguardasse.
Non è una novità. Spesso nella storia del nostro Paese le classi dirigenti hanno preferito nuotare in favore di corrente. Anzi a ben vedere la sorpresa è quando hanno saputo tenere il punto. La pratica di schivare i colpi trovando riparo nel campo avverso ha molti precedenti e nasce da debolezze congenite di governo e da una lunga storia di occupazioni straniere. Il nemico di oggi può diventare l’amico di domani. Per questo in Italia la classe dirigente non ama esporsi e fa valere la regola di Machiavelli: «Pensare una cauta risposta, scrivere una bella lettera», salvo esprimere in privato tutto il proprio incontenibile sdegno.
Il sottrarsi della classe dirigente alla responsabilità pubblica delle proprie convinzioni lascia campo alla radicalizzazione delle opinioni. Se l’analisi documentata e razionale dei fatti lascia il posto all’intensità delle passioni il risultato è un clima di eccitazione sociale in cui i punti di intesa svaniscono. E al venir meno del comune sentire l’unica regola che resta è pensare ciascuno per sé. Con le paure del futuro che si mescolano insieme: dal timore per la precarietà del lavoro e per l’impoverimento a quello per la perdita dell’identità minacciata dall’immigrazione.
Le conseguenze sono devastanti perché si ritorcono contro la parte più debole della società italiana. Quella per cui dover fare affidamento solo su di sé significa partire con uno svantaggio incolmabile. Quella che ha più da perdere dal venire meno di un ethos di solidarietà diffusa. Non è vero infatti che dall’inasprimento del clima sociale siamo colpiti tutti nella stessa maniera: i più deboli, quelli con meno risorse e mezzi, lo sono molto di più rispetto ai cosiddetti «ceti riflessivi». La ruling class anche se si sottrae ai propri doveri civici riesce sempre a cavarsela bene. Alla peggio manda i figli all’estero e si accomoda alla finestra.
La rassegnazione con cui ci stiamo adattando all’idea che più di tutto conta difendere il proprio particolare ha un prezzo alto da pagare. Questo dovrebbe preoccupare anche i sostenitori della narrazione sovranista, che oggi si presentano come voce della volontà popolare. Il sentimento nel Paese sembra infatti riguardare meno la tutela della sovranità nazionale e molto invece la difesa di interessi privati e di piccolo gruppo. Il Paese è agitato nel profondo da un istinto di autodifesa che bada al destino individuale più che a quello collettivo, si tratti dell’artigiano veneto o del disoccupato campano. Ma l’autodifesa individuale è un’illusione amara: anche la nuova élite al governo (perché di questo si tratta e non della presa della Bastiglia da parte del popolo) deve confrontarsi con il problema della ricostruzione di un senso civico. La tenuta del tessuto sociale è necessaria per ogni progetto di governo. Senza, c’è solo un paralizzante clima di rancore che finirà per ritorcersi contro chi lo alimenta. Torna allora la necessità di pensare in termini di bene comune, di responsabilità civica. Un impegno che richiede la partecipazione di tutti ma è più grande per chi detiene posizioni di potere.
Qui si misura la qualità di una vera classe dirigente che non voglia galleggiare nell’indifferenza. Qui si vede la capacità di rispondere alla domanda di rassicurazione che viene dal profondo della società. Perché al centro della scena oggi sta proprio la richiesta di non affrontare da soli le difficoltà che ci rendono vulnerabili. Può sembrare un discorso inadatto ai nostri tempi di linguaggio muscolare, contrapposizione e rottura. Ma è vero il contrario: oggi è più che mai necessario raffreddare gli istinti e ridare voce alla ragione. Evitando che il suo uso venga considerato elitario. In fondo si tratta di una forma di educazione civica, della quale sarebbe bene tornare ad occuparsi con urgenza.
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