ll debito italiano sul tavolo di Draghi.Renzi alla prova dei mercati con i Btp
Se il premier non riprenderà un’attività di spending review in grado di mettere in sicurezza i conti pubblici, è illusorio sperare nell'ok di Berlino al Qe3
La Banca centrale europea rimanda tutto a fine anno, quando la Federal Reserve avrà presumibilmente alzato di un quarto di punto i tassi sul dollaro, il nuovo presidente americano si sarà insediato, il referendum costituzionale italiano avrà dato il suo responso positivo o negativo che sia. Ma cosa è necessario per convincere Mario Draghi e i suoi colleghi, in particolare il numero uno di Bundesbank Jens Weidmann (che alcuni vedono già come futuro presidente in pectore della Bce), ad allargare ulteriormente i cordoni di una borsa che si è già dilatata oltre i mille miliardi di bond acquistati sul mercato?
Dato che gli attuali paletti del programma di “quantitative easing” (titoli tra i 2 e i 30 anni, con rendimenti superiori al tasso sui depositi, ossia non inferiori a -0,4%, senza superare il 33% del flottante e di tutte le emissioni tra 2 e 30 anni di un singolo stato e purché gli acquisti avvengano in proporzione al capitale della Bce che ciascun paese membro possiede) e visto che già ora la Bce acquista 80 miliardi di euro di bond al mese, per anche solo estendere oltre la scadenza naturale del marzo 2017 l’attuale programma sarà necessario rivedere alcune regole.
Ma toccare le regole richiede il consenso di tutti, in particolare della Germania, che già per far partire l’attuale programma richiese (e ottenne) che il 90% degli acquisti venisse effettuato da ciascuna banca centrale nazionale e solo il 10% dalla Bce (mutualizzando così il rischio relativo). Poiché il principale emittente/debitore in Europa è il Tesoro italiano, ogni modifica che in qualche modo favorisse ulteriori acquisti di Btp, tanto più se effettuati direttamente dalla Bce, non passerà prima di una contropartita politica molto precisa: il varo delle famose (e finora parecchio fumose) riforme strutturali.
l che significa tornare non solo a parlare e a discutere, anche animatamente, di spending review, come accaduto in questi giorni tra l’attuale commissario straordinario alla spending review, Yoram Gutgeld, e il suo predecessore Roberto Perotti (subentrato dopo le dimissioni, a inizio novembre scorso, di Carlo Cottarelli), ma ad agire, cosa che secondo Perotti non è stato fatto per mancanza di volontà politica. Gli interventi fin qui visti, infatti, sono modesti, non coordinati e con numeri spesso aleatori come il presunto risparmio di 500 milioni che si avrebbe abolendo il bicameralismo perfetto.
Se è vero che le riduzioni effettuate hanno già consentito nel complesso risparmi per 25 miliardi, è altrettanto vero che le risorse sono state poi utilizzate non per ridurre il rapporto debito-Pil, salito a fine primo trimestre al 135,4%, sempre più distante dal 60% ritenuto “di sicurezza” non tanto e non solo dai trattati europei ma dalla letteratura economica mondiale, bensì per distribuire piccole mance dal sapore elettorale come il “bonus 80 euro” ai lavoratori dipendenti a basso reddito, poi esteso ai pensionati.
Se si aggiunge che la crescita si è fermata nel secondo trimestre con una variazione nulla del Pil nonostante le esportazioni siano cresciute nello stesso periodo dell’1,9%, ben superiore a quella delle importazioni (+1,5%) e nonostante la tenuta dei consumi (+0,1%), ma con un nuovo calo di investimenti fissi lordi (-0,3%), spesa per consumi delle pubbliche amministrazioni (-0,3%) e domanda nazionale (-0,1%), il quadro è comprensibilmente poco rassicurante.
(Segue...)