Economia
Moda, i resi online alle aziende costano troppo: pesano per 550 miliardi
In Italia si stima che sia il 16% del totale degli acquisti a tornare indietro e l’azienda pagherebbe 13 euro per ciascun pacco. Molte ricorrono ai ripari...
Moda, i resi online costano troppo. Le aziende ricorrono ai ripari
Quello dei resi, soprattutto gratuiti, è divenuto un vero e proprio nodo da sciogliere per molte aziende retail, in particolare di abbigliamento fast fashion. Lo riporta Pambianconews.
Esistono abiti che all’interno di pacchi sigillati ed etichettati compiono viaggi intercontinentali andata e ritorno. Si tratta di un fenomeno conosciuto come bracketing, con il quale si definisce la tendenza a comprare molti prodotti uguali o simili con la consapevolezza di poterne restituire uno o tutti quanti.
Tra le diverse inchieste condotte in merito è emerso infatti che il valore globale dei resi online ammonterebbe oggi a 550 miliardi di dollari (pari a 509 miliardi di euro), un costo che non solo grava sul settore ma che si fa simbolo dei cospicui danni ambientali che si stanno procurando rapidamente.
L’Europa si fa carico del 23% di questo valore (circa 126 miliardi di dollari), con numeri destinati ad aumentare. In Italia, secondo l’Osservatorio della startup Yocabè che supporta i marchi sui marketplace, si stima che sia il 16% del totale degli acquisti a tornare indietro, e l’azienda pagherebbe in media 13 euro per ciascun pacco, senza contare altri due aspetti fondamentali: in primis la sovrapproduzione generata da un capo apparentemente venduto e in secondo luogo- come evidenzia McKinsey – che il 10% dei resi finisca in discarica, divenendo anche un problema di sostenibilità ambientale.
I tassi di reso al dettaglio infatti sono in aumento del 63% su base annua. In Italia la categorie con la più alta percentuale di reso è l’abbigliamento (25,14%), seguito da scarpe (15,30%) e accessori (10,14%).
L'indagine di Greenpeace in Italia
È quanto asserito anche da un’indagine condotta dall’Unità Investigativa di Greenpeace Italia, che per quasi due mesi, in collaborazione con la trasmissione televisiva Report, ha tracciato i viaggi compiuti da alcuni capi d’abbigliamento del settore del fast fashion acquistati e resi tramite piattaforme di e-commerce. Tutti i risultati dell’inchiesta, anticipati in parte nella trasmissione di Report andata in onda di recente su Rai 3, sono pubblicati oggi da Greenpeace Italia in un rapporto dal titolo “Moda in viaggio. Il costo nascosto dei resi online: i mille giri del fast fashion che inquina il pianeta”.
Per condurre l’indagine, sono stati acquistati 24 capi d’abbigliamento di aziende fast fashion sulle piattaforme e-commerce di otto tra i più noti nomi del settore: Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, Ovs, Shein e Asos.
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Prima di effettuare i resi, Greenpeace e Report hanno nascosto un localizzatore Gps in ogni vestito, riuscendo così a tracciarne gli spostamenti, scoprire il mezzo di trasporto usato e studiare la filiera logistica dei venditori.
In 58 giorni, i pacchi hanno percorso nel complesso circa 100 mila chilometri attraverso 13 Paesi europei e la Cina. Mediamente, la distanza percorsa dai prodotti per consegna e reso è stata di 4.502 chilometri. Il tragitto più breve è stato di 1.147 chilometri, il più lungo di 10.297 chilometri. Il mezzo di trasporto più usato è risultato il camion, seguito da aereo, furgone e nave. I 24 capi di abbigliamento sono stati venduti e rivenduti complessivamente 40 volte, con una media di 1,7 vendite per abito, e resi per ben 29 volte. A oggi, 14 indumenti su 24 (pari al 58%) non sono ancora stati rivenduti.
La collaborazione con la start up Indaco2 ha infatti consentito di stimare anche le emissioni prodotte dal trasporto e dal packaging dei capi d’abbigliamento: l’impatto ambientale medio del trasporto di ogni ordine e reso corrisponde a 2,78 chili di anidride carbonica equivalente, emissioni su cui il packaging incide per circa il 16 per cento. Prendendo come esempio l’impatto di un paio di jeans (del peso medio di 640 g), il trasporto del capo ordinato e reso comporta un aumento di circa il 24% delle emissioni di Co2.
L'inversione di rotta di alcuni marchi
Vi sono tuttavia alcuni marchi, anche tra quelli sopracitati, che già da qualche tempo stanno tentando un’inversione di rotta, che possa quantomeno limitare gli acquisti compulsivi, applicando una tassa per il reso; tra questi H&M, che ha deciso di addebitare delle commissioni sui resi solo del suo e-shop e solo in alcuni mercati, a causa di un aumento della quota di resi al 30%.
Poi Zara, che applica una commissione di 1,95 sterline (poco più di due euro) ai consumatori del Regno Unito, e che in Italia prevede invece per le restituzioni dal domicilio “un costo di 4,95 euro che verrà detratto dall’importo del rimborso”. Ci sono poi anche Uniqlo, Next e Boohoo, che non non prevedono resi gratis nel proprio e-commerce, mentre Asos e Zalando avevano stabilito, già diversi anni fa, un ordine minimo per poter beneficiare di opzioni free.
Questo cambio di rotta si deve principalmente al fatto che le aziende stanno sempre più prendendo atto di una perdita nella singola vendita, in quanto in situazioni – sempre più frequenti – di reso, i costi logistici divengono doppi: la restituzione dell’articolo, l’ispezione, la rimessa a nuovo e il rifornimento, e potenzialmente anche la liquidazione o la rottamazione dell’articolo.
Senza considerare i numerosi tentativi di frode nel reso, ovvero quello di chi indossa il capo per un evento, nascondendo ad esempio l’etichetta, per poi restituirlo una volta che l’indumento non risulti più necessario. I costi e la complessa logistica hanno dato reso necessario l’intervento di piattaforme di re-commerce che consentono ai marchi di commercializzare e rivendere i prodotti resi sui propri siti. Queste piattaforme sono un aiuto, ma non una soluzione e le aziende sono sempre maggiormente coscienti del fatto che offrendo una scarsa esperienza di reso, molti dei clienti anche fidelizzati perdono interesse e scelgono di acquistare altrove.
Tra le soluzioni varate per tentare di invertire la marcia e respingere ulteriori aumenti dei tassi di reso, c’è quella di implementare le capacità di Crm e di banca dati dei brand, anche tramite l’intelligenza artificiale, per valutare la singola richiesta di reso, analizzando cioè chi lo richiede, quali sono le sue motivazioni ed esaminare la storia dei resi di ogni cliente nel tempo.
Ad esempio, nel caso di un cliente fedele con uno storico di richieste di reso in numero ragionevole e di restituzione del prodotto acquistato in buone condizioni si può agire in un modo, e nel caso di un acquirente che ha restituito una scatola vuota o una copia scadente dell’articolo originale in altro modo. In questo modo si consentirebbe di gestire in modo differenziato la politica dei resi, in modo da disincentivare comportamenti che possono essere ritenuti dannosi per l’ambiente.