Economia
Mps corre in borsa, il Tesoro studia la nascita del terzo polo
Via XX Settembre avrebbe deciso di escludere i fondi di private equity dai potenziali acquirenti della sua quota nell’istituto senese
Di Luca Spoldi
Mps rimane al centro dei riflettori in borsa, dove il titolo dell’istituto guidato da Marco Morelli recupera oggi un altro 2,5% abbondante, portando attorno al 45% il rialzo rispetto ai livelli di 12 mesi fa con una capitalizzazione che ormai è tornata attorno ai 2 miliardi di euro. A tenere banco è sempre il tema della futura uscita del Tesoro (attualmente socio al 68%) dal capitale.
Il piano di uscita avrebbe dovuto essere presentato a fine anno ma il protrarsi delle discussioni tra Tesoro e Commissione Ue per definire i termini dello scorporo di una parte consistente delle Npe dell’istituto (si parla di una operazione da circa 9,4-9,6 miliardi di euro rispetto ai 12 miliardi di Npe in portafoglio a fine 2019), da girare ad Amco (l’ex “bad bank” Sga controllata al 100% dal Tesoro), ha fatto slittare la messa a unto definitiva di tale piano, visto i riflessi che l’operazione è destinata ad avere sui requisiti patrimoniali di Mps.
I crediti da cedere sono infatti coperti mediamente per poco meno della metà del loro valore e non appare facile, a dir poco, riuscire a cederli “a prezzi di mercato”, come vogliono in questi casi le norme Ue a tutela dei contribuenti, per importi superiori al 35%-40% del nominale complessivo (si tratterebbe dunque di gestire una potenziale minusvalenza tra il 10% e il 15% dei crediti nominali ceduti, ossia tra 1 e 1,5 miliardi di euro circa).
Le voci che filtrano da ambienti vicini al Tesoro è che si tratti comunque di questione di settimane e che a Via XX Settembre si sia già impegnati nella definizione delle modalità d’uscita dal capitale entro la fine del 2021 come previsto dalla Ue e che sia orientato a escludere offerte da parte dei grandi fondi di private equity internazionali, così da favorire la nascita di un terzo polo bancario italiano dopo Intesa Sanpaolo e Unicredit.
Una ipotesi non nuova: da tempo si parla infatti di una futuribile fusione “alla pari” tra Banco Bpm (3,1 miliardi di capitalizzazione) e Ubi Banca (3,6 miliardi di capitalizzazione) per creare un gruppo da oltre 180 miliardi di impieghi netti “in bonis” a fine 2019 che potrebbe poi procedere a rilevare il controllo di Siena (78,8 miliardi di impieghi netti “in bonis”). Un altro rumor di borsa ipotizzava che nel “risiko” potesse essere coinvolta anche Bper Banca (2,3 miliardi di capitalizzazione, impieghi netti “in bonis” pari a 49 miliardi a fine anno).
Ipotesi futuribili ma non così campate per aria, se Giandomenico Genta, presidente di Fondazione CariCuneo (socia di Ubi Banca col 5,95% del capitale) a inizio ottobre scorso precisava, dopo che Morgan Stanley per prima aveva fatto balenare l’ipotesi di un matrimonio tra i due istituti lombardi, che il nuovo patto parasociale di Ubi Banca “non esclude consolidamenti, che anzi saranno possibili”. Aggiungendo come tra i soggetti interessati a una possibile integrazione vi fosse “non solo Banco Bpm ma anche Bper Banca e Mps”.
Parole che avevano subito trovato eco in quelle di Giovanni Quaglia, presidente della Fondazione Crt (socia all’1% di Banco Bpm), da tempo in buoni rapporti con Genta, secondo cui una fusione era “un processo che richiede i suoi tempi, che non è facile, che però va nella logica di quello che vuole la Bce”. Anche Quaglia aveva poi aggiunto: “C’è un puzzle di possibili matrimoni, per adesso non sono neanche fidanzamenti”.
Da una triangolazione tra Cuneo, Torino e Bergamo, con l’eventuale ulteriore assist di Modena, potrebbe dunque nascere il terzo gruppo bancario italiano, che anche gli analisti di Bain continuano a consigliare al ministro Roberto Gualtieri, una volta che gli stock di crediti deteriorati saranno stati definitivamente ridotti agendo in particolare sugli Utp (Unlikely to pay, inadempienze probabili, ndr), una tipologia di crediti che a fine anno pesava per 5,4 miliardi sul bilancio di Mps con una copertura media del 43,4%, per un valore netto di libro di poco superiore ai 3 miliardi.
Secondo i consulenti di Bain, “l’Italia necessita quanto prima di una fase di consolidamento volto a creare un terzo player grande e solido”. L’eventuale fusione a quattro creerebbe un gruppo con una capitalizzazione di mercato ad oggi attorno agli 11 miliardi (Unicredit capitalizza 31,6 miliardi, Intesa Sanpaolo 43,5 miliardi) e impieghi netti “in bonis” per circa 208 miliardi (meno della metà rispetto a Intesa Sanpaolo o Unicredit). Basteranno questi numeri a qualificare come “grande e solido” l’eventuale terzo polo?
La risposta potrebbe essere legata alla capacità di integrare oltre che i numeri le “soft skills” dei diversi istituti che daranno coinvolti, così da dare vita a un gruppo bancario al passo coi tempi, in grado di puntare su prodotti fee-based e a basso impatto patrimoniale, che abbia al suo interno una valida “fabbrica” di risparmio gestito. Come si vede tanta carne al fuoco, che richiederà dunque una grande attenzione da parte del Tesoro in fase di definizione del piano prima e di esecuzione dello stesso poi.