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Gioco, l'intervista al Presidente della Società Italiana Intervento Patologie Compulsive sul modello veneto

Guerreschi (Società Italiana Intervento Patologie Compulsive): "È il modello veneto l’emblema del fallimento delle restrizioni orarie delle slot"

di Redazione Corporate

Gioco d'azzardo, l'opinione del Presidente della Società Italiana Intervento Patologie Compulsive Cesare Guerreschi sul modello veneto

Il Professore Cesare Guerreschi, Presidente della Società Italiana Intervento Patologie Compulsive, decano degli psicologi e psichiatri che si occupano di dipendenze, è il “veterano” della lotta contro l’alcolismo e il gioco patologico in Italia.

Professor Guerreschi, il gioco d’azzardo patologico è ormai riconosciuto come una dipendenza comportamentale. Quali sono gli elementi principali che portano allo sviluppo del problema?

Il gioco d’azzardo patologico è una dipendenza riconosciuta a livello scientifico e ha caratteristiche simili a quelle di altre dipendenze comportamentali, come lo shopping compulsivo o la dipendenza da internet. Il problema nasce da un’interazione complessa tra fattori psicologici, genetici e ambientali. Secondo l’OMS, il disturbo colpisce una percentuale significativa della popolazione e può avere conseguenze gravissime, sia economiche che sociali. Purtroppo, invece di concentrarsi su un approccio preventivo e terapeutico, molte istituzioni stanno adottando misure inefficaci, come le restrizioni sugli orari di gioco, che non solo non risolvono il problema, ma in alcuni casi lo aggravano.

In molte regioni, a partire dal Veneto, è stato adottato un sistema di restrizioni orarie per limitare l’accesso alle slot. Qual è la sua opinione su questo approccio?

Il modello veneto, così come altre regolamentazioni simili, parte da un presupposto sbagliato: quello di ridurre l’accesso a una tipologia di gioco (le slot) come metodo per combattere la dipendenza. Tuttavia, le dipendenze non funzionano così. Se una persona sviluppa una compulsione patologica, non smetterà di giocare solo perché trova le sale chiuse in determinate fasce orarie. Anzi, questo può aumentare l’ansia e portare a comportamenti ancora più compulsivi, come il cosiddetto “pendolarismo del gioco”, ovvero lo spostamento dei giocatori verso altre aree, verso altri giochi che non sono limitati o peggio verso il gioco illegale. Il risultato? Il gioco non sparisce, ma si sposta in ambienti meno controllati, fuori dal perimetro della legalità e della tutela sanitaria. È esattamente quello che sta accadendo in Veneto: chi vuole giocare trova comunque il modo di farlo, magari rivolgendosi a circuiti illegali, che non hanno alcuna regolamentazione e dove il rischio di sfruttamento e dipendenza è ancora maggiore.

Quindi ritiene che le restrizioni orarie siano inefficaci?

Assolutamente sì. Limitare gli orari di gioco crea un effetto boomerang. Molti giocatori, anziché distribuire l’attività in momenti diversi della giornata, tendono a concentrare il gioco nelle ore in cui le sale sono aperte, aumentando il rischio di comportamenti compulsivi. Inoltre, chi lavora in questo settore si trova penalizzato da misure che non colpiscono realmente il problema, ma solo l’offerta legale. Abbiamo già visto con l’esperienza americana che il proibizionismo non è mai la soluzione: quando si cerca di reprimere un fenomeno senza comprenderlo, si finisce per alimentare il mercato nero. È lo stesso errore commesso con l’alcol negli Stati Uniti: vietarlo non ha eliminato il consumo, ma ha rafforzato la criminalità organizzata.

Quali sarebbero, a suo avviso, le strategie più efficaci per contrastare il gioco d’azzardo patologico?

Dobbiamo cambiare prospettiva e passare dalla repressione alla prevenzione. Serve un sistema che si concentri sull’educazione e sulla responsabilizzazione dei giocatori. Questo significa investire in programmi di formazione, sensibilizzare i giovani e fornire strumenti di supporto ai soggetti a rischio. Un altro aspetto fondamentale è la personalizzazione degli interventi. Ogni giocatore problematico ha una storia diversa e necessita di un approccio su misura. La prevenzione deve includere supporto psicologico, monitoraggio dei comportamenti e strumenti di autoesclusione consapevoli, piuttosto che regole arbitrarie e generalizzate.

Cosa si dovrebbe fare per migliorare la normativa attuale?

Bisogna ridurre l’intervento dello Stato nelle scelte individuali e lasciare più spazio a soluzioni basate sull’evidenza scientifica. Invece di imporre restrizioni orarie senza alcun fondamento logico, dovremmo adottare misure più mirate, come il controllo del comportamento dei giocatori, la possibilità di autolimitarsi volontariamente e il miglioramento dei sistemi di monitoraggio.

Perché secondo lei in Veneto è andata peggio che da altre parti?

Perché in Veneto oltre alla regolamentazione oraria regionale i Comuni hanno facoltà di adottare ulteriori restrizioni, cosa che molti hanno fatto, generando un contesto regolatorio del tutto frammentato e confusionario. I giocatori patologici sono aumentati come evidenziato dai dati dei SERT e da quelli sui volumi di gioco. In sintesi, il modello veneto è il classico esempio di politica inefficace, motivata più dalla volontà di fare qualcosa di popolare e appariscente che dalla sua reale utilità. Se vogliamo davvero affrontare il problema del gioco d’azzardo patologico, dobbiamo concentrarci su soluzioni basate sulla prevenzione e sull’educazione, non su divieti che spingono i giocatori verso circuiti ancora più pericolosi.