Economia
Ora che il cigno nero è arrivato davvero, siamo pronti?
Poche metafore sono più abusate, nel linguaggio economico, di quella del cigno nero. Il cigno nero è l’evento imprevedibile, impronosticabile e rarissimo, ma dalla portata e dagli impatti così grandi da trasformare il contesto di riferimento. Da quando l’economista Nassim Thaler ha pubblicato l’omonimo saggio, nel 2007, i “cigni neri” si sono susseguiti nella narrativa sociale ed economica.
“Cigno nero” è, a pieno titolo, la diffusione rapida ed inesorabile del virus Sars-Cov-2, a cui ci si riferisce comunemente come “Coronavirus”. Difatti, caratteristica primaria di un cigno nero è l’assenza di elementi di confronto con il passato sul quale basare analisi e previsioni del futuro. Quantificare e, di conseguenza, qualificare il tasso di diffusione del virus Sars-Cov-2 risulta difficile basandosi sui tassi di diffusione delle ultime epidemie globali (SARS nel 2002-2003, influenza aviaria nel 2006 e influenza suina nel 2009), ben più contenute per numero di contagi e aree colpite dell’epidemia attuale. Un confronto appropriato sotto il profilo della diffusione dell’epidemia è dato dall’influenza spagnola, 1918-1919: un benchmark così distante dalla realtà sociodemografica, geopolitica ed economica attuale da rendere la costruzione di scenari previsionali a partire dal parallelismo con episodi di archivio, poco più che un esercizio intellettuale.
Tuttavia, stimare gli impatti e preparare strategie di minimizzazione dei danni è irrinunciabile. Per quanto l’elemento più importante al momento sia l’aspetto medico-sanitario, come giusto che sia, non bisogna dimenticare che la diffusione del Coronavirus, certificato anche dalla World Health Organization come pandemia e suggellato anche dai tremendi shock di Borsa di questi giorni (-17% in Italia in un solo giorno, il 12 marzo, non si era mai visto prima), porta con sé anche pesanti impatti economici, sui quali vale la pena avviare una riflessione.
Partiamo da alcuni dati: il turismo, settore fondamentale per il nostro Paese, attiva il 13% del nostro PIL, tra impatto diretto e catene di fornitura. Ogni anno in Italia oltre 60 milioni di turisti stranieri pernottano nei nostri alberghi, mangiano nei nostri ristoranti, fanno shopping nei nostri negozi. È ormai chiaro da queste prime settimane di diffusione del virus che questo numero sarà destinato a ridursi fortemente nel 2020: non passa giorno senza leggere di voli soppressi, prenotazioni cancellate, viaggi annullati, cancellazione di eventi (inclusi i due Forum di Cernobbio primaverili curati da The European House – Ambrosetti, quello annuale per la Confcommercio e “Lo scenario dell’economia e della finanza”), chiusura di bar, ristoranti ed esercizi commerciali. Il coprifuoco nazionale del 12 marzo deciso per contrastare l’epidemia porterà inesorabilmente ad un inevitabile rallentamento anche dell’industria produttiva e manifatturiera. Questa mazzata, anche se dovesse limitarsi a sole 4/6 settimane, è destinata a mettere definitivamente in ginocchio l’attività economica della vendita al dettaglio e, di conseguenza, quella delle filiere a monte ed aggiungerà un numero significativo di morti e feriti che andrà ad impattare su un settore già in difficoltà che ha già subito, nel 2019, la chiusura di oltre 5.000 esercizi commerciali. Abbiamo tratteggiato degli scenari di impatto sul nostro PIL, scenari che dipendono da due variabili importanti e imprevedibili: l’arco temporale preso in esame e la reazione di cittadini ed investitori. Per quanto riguarda la durata dell’epidemia, assumiamo una durata trimestrale, consapevoli che con l’evolvere della situazione e delle informazioni a nostra disposizione questo dato potrà essere soggetto a revisioni. La scelta del trimestre non ha particolari motivazioni mediche alla base, sia chiaro: è l’unità minima standard delle principali variabili macroeconomiche, ragione per la quale abbiamo impostato la nostra analisi a partire da questa dimensione temporale.
La seconda variabile è la reazione dei cittadini e degli investitori. Due dati per provare a quantificare la fiducia (o, in questo caso, la sfiducia) che pervade la comunità economica mondiale. Da gennaio a febbraio l’indice PMI cinese – che traccia le aspettative di espansione o contrazione del mercato manifatturiero, espresso su una scala 0 – 100 dove valori sotto il 50 indicano aspettative di contrazione – è passato da 50 a 35,7. Si tratta del minimo storico: a novembre 2008, in piena crisi Lehman Brothers, tale valore scese fino a 38,8. Un altro indicatore rilevante è il VIX Index, che misura la volatilità della Borsa americana. La diffusione in Europa del virus ha provocato una salita del VIX Index su valori che non si vedevano da quando, nell’agosto 2015, è crollata la Borsa di Shangai. In sintesi, la tensione è visibile sia sui mercati, che fra le imprese, che fra i consumatori. Quindi, tenendo a mente le due variabili discusse poco sopra, sulla base delle nostre stime una prolungata e duratura contrazione porterebbe ad una riduzione del PIL 2020 stimata fra -2,5% e - 3,5%. Resta inteso che una variazione delle variabili sopra menzionate potrebbe spostare questo intervallo: ad esempio, se le misure di quarantena e le altre indicazioni delle Istituzioni venissero scrupolosamente rispettate, a fronte di una fortissima contrazione nelle prime settimane ci sarebbe una ripresa dell’attività economica anticipata rispetto al caso in cui il disinteresse e il menefreghismo aggravassero la diffusione del virus. Inoltre, questa stima è soggetta alle dinamiche di contenimento del virus messe in atto negli altri Paesi: si auspica che prendano esempio dai casi cinese e italiano, mettendo quindi in atto politiche di gestione con sufficientemente anticipo. In caso contrario, dovesse esserci una recessione diffusa a livello globale, gli impatti a cascata potrebbero essere peggiori.
Nel nostro scenario previsionale abbiamo incorporato una contrazione economica dovuta alla riduzione dei flussi turistici e dei conseguenti impatti negativi anche sulla filiera a monte; così come la riduzione dell’attività manifatturiera. Abbiamo inoltre incorporato un rialzo dell’attività economica delle imprese operanti nel settore farmaceutico-sanitario. Infine, abbiamo considerato una contrazione dell’attività di vendita al dettaglio. Per la parte non alimentare, il motivo è immediatamente spiegato dalla chiusura degli esercizi commerciali in Lombardia e dalla riduzione dei flussi nelle altre Regioni. Inoltre abbiamo considerato una diffusa riduzione della propensione al consumo, che tipicamente accompagna le fasi di maggiore incertezza.
Gli impatti negativi, però, potrebbero non esaurirsi qui, ma avere una coda lunga dovuta alla chiusura di attività, piccole imprese, esercizi commerciali e alberghieri, possibilità della quale bisogna avere contezza. È in questo contesto che il ruolo del settore pubblico diventa dirimente, incaricato non solo di gestire e organizzare la risposta alla più grave emergenza sanitaria che il nostro Paese affronta da molti anni, ma facendo sì che il peso economico di questo evento non ricada sulle spalle delle fasce più deboli: lavoratori turistici, partite IVA, giovani con contratti occasionali e precari, piccole imprese.
Quali sono le armi che l’Italia e l’Europa hanno a disposizione? Chiaramente, la politica monetaria non rientra nel novero delle leve attivabili. Ricordiamo tutti i moniti di Draghi, che invitava – in tempi non sospetti – gli Stati ad una politica fiscale più coraggiosa, sostenendo che la faretra della BCE fosse ormai vuota.
E quindi bisogna tornare a guardare alla politica fiscale, al ruolo dello Stato in questa situazione di crisi. Il ruolo dello Stato si manifesta in due momenti distinti: politiche fiscali emergenziali, di breve periodo, ma anche politiche coraggiose capaci di rilanciare la crescita quando tutto questo sarà finito. Nel breve periodo: è indispensabile mettere in campo una politica fiscale che non strozzi partite IVA, piccoli imprenditori, commercianti, ristoratori, e che favorisca al massimo la mobilitazione degli investimenti. Posporre il pagamento dell’IVA trimestrale, dare la possibilità di spalmare l’imposizione 2020 negli esercizi successivi, possono essere delle idee che tranquillizzerebbero le imprese e, più in generale, la popolazione.
Si potrebbero ipotizzare nuovi importanti finanziamenti europei per i sistemi sanitari, da unire a sussidi alla disoccupazione temporanea e da unire ad un importante investimento nella digitalizzazione e modernizzazione del Sistema paese, a partire dai pagamenti digitali. Ma bisogna anche pensare al lungo periodo. Da anni discutiamo di Green New Deal, di investimenti verdi, di trasformazione della società. Perché non ora? Perché non mettere in atto un ambizioso, impegnativo, ma sicuramente indispensabile piano di investimenti, che faccia da leva per far uscire il Paese – ma anche l’Europa intera – dalla crisi causata dal Coronavirus e, contemporaneamente, combattere quel cambiamento climatico per il quale ora ci preoccupiamo tutti un po’ meno, presi da altri problemi forse più contingenti, ma sempre presente?
Il mantra di The European House – Ambrosetti è: senza investimenti non c’è lavoro, senza lavoro non c’è crescita, senza crescita non c’è futuro: mai come in questa occasione dobbiamo pensare al lungo periodo, e iniziare a pensare a come ripartire. Dopotutto, come diceva Macchiavelli (in realtà probabilmente apocrifo, ma è comunque una valida massima), “dove c’è una grande volontà non possono esserci grandi difficoltà”. È da tenere a mente soprattutto in situazioni come questa: una volontà forte, coesa, e determinata è la condizione indispensabile per far sì che il Coronavirus non assesti un colpo letale alla nostra società e alla nostra economia.